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Shadows - Ombre

Regia di Carlo Lavagna vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Shadows - Ombre

di mck
7 stelle

Ombre allo Specchio.

 

 

Attenzione: sono presenti anticipazioni secondarie, ma importanti (riguardanti la natura del rapporto fra le tre protagoniste), non mascherate, e un grosso spoiler (relativo all’ambientazione e al contesto) nascosto in evidenza [la cui natura è ben intuibile già molto prima del raggiungimento di metà film, ma senza che ciò rovini l’esperienza, che nel complesso rimane (s)gradevole] e rivelabile con un click.

 


Dopo il convincente esordio di “Arianna” con Ondina Quadri del 2015 le doti di messa in scena di Carlo Lavagna vengono confermate da questo “Shadows” [una co-produzione italo (la Ascent di Andrea Paris e Matteo Rovere, più la Rai, Sky e Amazon) - irlandese (luogo delle riprese) distribuita da Vision] che può essere considerato una variazione sul tema di quel primo lavoro data l’impalcatura di argomenti in comune che ripercorre per altre vie lo stesso territorio: identità e scoperta di sé (e dell’attorno), segreti di famiglia (e del proprio corpo/mente), conflittualità adolescenziale coi genitori (o di chi ne espleta/usurpa le veci) e rapporto amicale/fraterno in zona post-menarca, con aggiunta di Fine del Mondo [e letterale citazione costumistico-caratteriale dal seminale “SPOILER”, il cui sotto-finale coincide col termine del film in esame, mentre altre variegate ed eterogenee assonanze - tanto superficiali e parziali quanto profonde e compless(iv)e - si riscontrano verso: “Kynodontas” di Yorgos Lanthimos, “Room” di Lenny Abrahamson, “Leave No Trace” di Debra Granik, “Light of My Life” di Casey Affleck, “the Nest” di Roberto De Feo e “Buio” di Emanuela Rossi, o financo, dicotomicamente, le “Heavenly Creatures” di Peter Jackson].

 


Ciò vale a dire, in poche altre parole, descrivendo con un’impressione una delle scene più sottilmente e al contempo furiosamente liberatorie dalla coercizione psicologica: Imparare a Non Zoppicare Se Non Fa Male, ovvero: l’epifania del “I genitori (naturali o surrogati) non sono Dio”, con tutto quel che ne segue: sono fallibili, “persino” menzogneri (nel bene e nel male), e/ma anche per questo sono pure mortali, ed è l’amore che - magari soltanto alla fine - tiene insieme il mondo, sempre e comunque, e bla bla bla quanto si vuole, ma questo è Verbo.

 


Ad un certo punto, ad ogni modo, occorre precisare una cosa: il film subisce un incremento progressivo, se non esponenziale, dell’esasperante e continua produzione di scintille d’irritazione provocata dall’attrito fra le dinamiche relazionali scaturenti dallo scontro a freddo tra le due giovani sorelle e la loro madre: ed è questa la crepa nella colonna portante che rischia di far collassare le ambizioni dell’opera in un grumo di respingente disorientamento in cui il disinnesco della sospensione dell’incredulità (tanto dei grezzi rapporti pregressi di causa-effetto quanto delle raffinate psicologie comportamentali in divenire fra genitrice e figlie, ma non rispetto al contesto socio-ambientale, la cui costruzione regge bene, mentre alcune incongruenze rintracciabili retro-intuitivamente sono spiegabili con un secondo passaggio/interrogazione del senno di poi) trova linfa fertile: ma l’abbrivio è preso, e il film sfocia “tranquillamente” verso il suo compiersi, e se crolla, le macerie si dispongono ad auto-aruspice imago di un’esagerazione estremista destrutturatasi, ma sineddoche del quotidiano: una peculiare dismisura iperbolica per la comune esperienza condivisa.

 


Il cast – coadiuvato da una buona regia, dalla fotografia notturna e solarizzata di James Mather (“Frank”, “Dublin Murders”), dall’adeguato montaggio di Davide Vizzini (“Leoni”, “la Ragazza del Mondo”) e dalle musiche davvero egregie di Michele Braga (“Lo Chiamavano Jeeg Robot”, “Smetto Quando Voglio”, “Una Famiglia”, “DogMan”, “In Viaggio con Adele”, “l’Incredibile Storia de l’Isola delle Rose”, “Freaks Out”), con gl’inserti aggiunti da Maurice Ravel, Jóhann Jóhannsson (“Odi et Amo”, molto ben utilizzate) e, direttamente dalla “First Lady of WoodStock (e Wight)” - e “meno male”, a proposito del personaggio materno, che “Shadows” se lo sono visti in quattro, altrimenti sai le idiozie tipo “È un film anti-hippie!”, le stesse riversate su “Once UpOn a Time in HollyWood” -, Melanie Sanka, la psichedelico-country & folk-pacifista “Lay Down”...

 

 

...sui titoli di coda, mentre i disegni a gesso sul muro-lavagna sono di Alessandro Cicoria –, tripartito (tutte in maniera diversa bravissime, secondo differenti stilemi d’indole), si sviluppa su tutti e tre i binomi possibili, con lo spettatore che si identifica maggiormente con la sorella minore, Alex (l’incisiva Lola Petticrew), mentre alla sorella maggiore, Alma (l’esordiente Mia Threapleton, figlia d'arte - Kate Winslet -, ma che ha mantenuto il cognome paterno, oggettivamente molto meno conosciuto), e la madre (Saskia Reeves, indimenticabile in “ButterFly Kiss” di Michael Winterbottom al fianco di Amanda Plummer), devono s-o/u-pportare il compito d’inscenare verso il suddetto un goccio di repulsività, architettata, questa, da una sceneggiatura scritta a quattro teste da Damiano Bruè (“NinnaNanna”, “Lasciarsi un Giorno a Roma”), Fabio Mollo (“il Sud è Niente”, “il Padre d’Italia”, “Curon”; accreditato anche come “produttore creativo”), Vanessa Picciarelli (“Bangla”) e Tiziana Triana (“Luna Nera”) che, insomma, lascia ad intendere - azzardando, ma nemmeno troppo (Curon, Luna Nera, Libeccio e Caprera) - una cosa: il merito delle cose riuscite del film, più che altro, è da imputare al regista, che qui compie un piccolo passo indietro – o ad ogni modo marcia sul posto - rispetto ad “Arianna”, in attesa di quello eventuale in avanti.

 


* * * (¼) - 6.125    

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