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The Wasteland

Regia di Ahmad Bahrami vedi scheda film

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La recensione su The Wasteland

di port cros
7 stelle

 

77ma Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia (2020) – Orizzonti

 

scena

The Wasteland (2020): scena

 

Dramma "operaio" meditativo e disperato, di impegnativa visione ma di grande fascino, fatto di lunghi silenzi, dialoghi fuori campo e un rigorosissimo bianco e nero, l'iraniano Dashte Kharmoush (The Wasteland) racconta gli ultimi giorni di vita di una primitiva fabbrica di mattoni persa nel nulla semi-desertico dell'Iran, costretta a chiudere perché glia avanzamenti tecnici nel settore delle costruzioni rendono obsoleto il suo prodotto. La chiusura, annunciata dal padrone agli operai in una riunione di gruppo, ha diversi effetti, comunque sconvolgenti, sulle vite degli operai (uomini e donne) e delle loro famiglie, ma sembra terremotare soprattutto la vita del quarantenne (sembra in realtà ben più anziano) Lotfollah, l'intermediario tra padrone e lavoratori, che fin da bambino ha vissuto e lavorato esclusivamente in quel luogo e non conosce altro del mondo e della vita.

 

La fabbrica, preso cui i lavoratori lavoravano e risiedevano in modeste casupole con le rispettive famiglie, era nel tempo diventata un piccolo microcosmo a se stante, isolata com'era dalla città, con i suoi progetti matrimoniali – ostacolati dal dissenso dei genitori, le rivalità e diffidenze etniche e culturali – soprattutto contro il curdo accusato di gironzolare “nudo” vicino alle donne (in realtà in canottiera e pantaloni lunghi), le aspirazioni del mite Lotfollah, innamorato di una donna a cui il padrone lo dissuade dal proporsi perché è ormai “troppo vecchia e la moglie deve avere la metà dell'età del marito per prendersi cura di lui” nella terza età ( si scoprirà alla fine quanto questo consiglio fosse poco disinteressato, in quanto il datore di lavoro aveva segretamente fatto della stessa donna la sua “moglie temporanea”).

 

scena

The Wasteland (2020): scena

Il crollo di questo mondo, l'unico che avesse mai conosciuto, e l'impossibilità di immaginare un futuro con la donna amata spingeranno Lotfollah ad un gesto estremo, in un ferocissimo finale: quando tutti se ne sono andati, utilizza gli ultimi mattoni prodotti per murarsi vivo all'interno della fabbrica, trasformata in una camera a gas dal combustibile utilizzato per alimentare la cottura.

 

Film di crudo realismo dallo stile molto “iraniano”, fatto di lunghi silenzi soprattutto nella parte finale, di dialoghi fuori campo mentre la macchina da presa ruota con studiata lentezza a riprendere l'ambiente e solo alla fine della conversazione giunge a soffermarsi sui personaggi, di paesaggi polverosi e quasi lunari dominati da isolate ciminiere, fuori dal tempo coi forni per la cottura dei mattoni che sembrano appartenere a ere tecnologiche fa e una mentalità arcaica che a noi pare giungere da un lontano passato, ma che nell'Iran – soprattutto extraurbano - rappresenta un'immutabile presente.

 

 

il regista Ahmad Bahrami ed il protagonista Ali Bagheri durante il Q&A al termine della proiezione

 

 

Nella sessione Q&A successiva alla proiezione della Sezione Orizzonti, il regista Ahmad Bahrami ed il protagonista Ali Bagheri hanno risposto alle domande degli organizzatori (non del pubblico, perché le linee guida anti-Covid quest'anno lo vietano per scongiurare passaggi di microfono di mano in mano, anche se una spettatrice seduta nelle prime file è riuscita a a “suggerire” una sua domanda all'intervistatrice ufficiale).

Il regista ha affermato che l'idea per questa storia è nata da una parte dal suo vissuto di figlio di un operaio, dall'altra di essere rimasto colpito, da bambino, dall'osservazione di uno di questi antichi forni e delle persone che vi lavoravano.

Sullo stile, oltre a regalare un'intelligente riflessione sul bianco e nero (che “è un regalo della fotografia e del cinema, perché noi vediamo il mondo a colori”), Bahrami manifesta la sua preferenza per lo stile registico che definisce “all'orientale” fatto di ritmo lento e scene lunghe. Tra le fonti di ispirazione cita il film “Natura Morta” ed i registi Abbas Kiarostami, di cui è stato allievo per un anno, e Bela Tarr, che lo ispira al punto di considerarsene allievo. Bahrami ribadisce l'amore degli iraniani per il cinema italiano, soprattutto neorealista e afferma il suo desiderio, condiviso da molti registi connazionali, di fare un cinema “umanistico” che racconti la vita degli umili, come gli operai ed i loro rapporti col datore di lavoro.

Non poteva mancare la domanda sulla figura della donna: il regista risponde che la condizione femminile nella società iraniana non può essere giudicata sulla base di un film le donne iraniane di ambiente urbano non se la passano oggi così male come i personaggi femminili del suo film, ma che egli, volendo costruire una pellicola fuori dal tempo, ha messo in scena una “figura storica” della donna.

Comunque ribadisce non c'è politica nel suo film, perché se una pellicola si avvicina alla politica rischia di perdere parte del suo valore artistico; che i suoi personaggi intendono rappresentare gli operai ovunque nel mondo e si sottrae da ogni velleità di alimentare il conflitto di classe, perché per lui non si può vedere la realtà in maniera dicotomica ne le colpe vanno equamente suddivise tra operai a datori di lavoro.

Sul lancinante finale, l'autore afferma che ogni spettatore, sulla base delle sue esperienze, può vedervi qualcosa di diverso e trarre una sua conclusione personale; lui, parlando da spettatore e non d aautore, ci vede una scelta di libertà del protagonista, che “esce dal cerchio e va verso la libertà”.

 

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