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La verità su La dolce vita

Regia di Giuseppe Pedersoli vedi scheda film

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La recensione su La verità su La dolce vita

di yume
8 stelle

Giuseppe Amato, per tutti Peppino, un nome che magari sfugge alle masse, alla fine di un film si guarda il prodotto finito, si ammira il regista, si amano gli attori, ma di chi ha reso possibile tutto nessuno si occupa.

locandina

La verità su La dolce vita (2020): locandina

 E alla fine Padre Pio disse “sì”.

Peppino Amato era devoto al Santo di Pietralcina e quel film stava diventando un’ossessione.

Fellini non mollava, “devo lavorare in pace” e “non voglio essere disturbato”, Angelo Rizzoli sbraitava sui costi di quello che per lui sarebbe stato un disastro, un’ecatombe, la notte Peppino, il produttore, aveva  gli incubi, sognava i film fatti, si svegliava madido.

Bisognava partire e parlare col Santo.

Dieci minuti a guardarsi, lui e Padre Pio, senza parlare, dopo il viaggio di notte da Roma fino in Puglia con un amico buttato giù dal letto.

 Il film si doveva fare, e Padre Pio disse sì.

Che poi la Chiesa, i Gesuiti, i padri molto reverendi tutti lo boicottassero e organizzassero pubbliche preghiere quando fu messo in distribuzione è cosa che a Padre Pio non interessò molto, sappiamo come anche lui fosse un tipo molto self made, in polemica con un bel po’ di  poteri.

Certo è che il film si fece, ma Peppino ci rimise le penne.

Quattro anni dopo morì, nel 1964, dopo una serie di infarti e l’ultimo lo fulminò.

Ma aveva vinto, La dolce vita fu il film che lui, solo lui (e, ovviamente, Fellini, Pinelli, Flaiano e Padre Pio) capì, volle, fece carte false perchè Fellini riuscisse a girarlo.

La dolce vita disegnò l’Italia come mai prima di allora, un film senza il quale il cinema non sarebbe quello che è.

Passione ed erotismo, il bello e il brutto della vita, c’era l’incantesimo dell’essere umano”, gridava Peppino al telefono al cavalier Rizzoli.

Ne La dolce vita c’è il cuore!”. Urlava. “Il cuore io ce l’ho nel portafoglio”, tagliava corto il cavaliere, e giù la cornetta.

Fu una lotta dura, lunga, sofferta, uno scambio di preghiere, minacce, insulti e riconciliazioni.

Grande merito di Giuseppe Pedersoli (figlio di  Bud Spencer, genero di Amato, che riposa nella tomba vicina ) aver ricostruito per Fuori Concorso a Venezia quella storia, cucendo insieme interviste, spezzoni d’archivio, video delle teche Rai, un carteggio che oggi fa tenerezza, battuto com’è a macchina, cancellature qua e là, fogli ingialliti, il copione del film in una cartellina invecchiata male.

Se Fellini brilla di luce propria sullo sfondo, in primo piano c’è questo napoletano doc, nato col cinema e morto nel cinema, Giuseppe Amato, per tutti Peppino, un nome che magari sfugge alle masse, alla fine di un film si guarda il prodotto finito, si ammira il regista, si amano gli attori, ma di chi ha reso possibile tutto nessuno si occupa.

Peppino era un produttore di pasta diversa. Per lui il cinema erano soldi, certo, ma era soprattutto amore.

Era stato folgorato da bambino, andando a scuola imbottito dalle raccomandazioni di mammà. Il set di un muto girato nella piazzetta del paese fu come aprire un buco nella parete e vedere il giardino delle meraviglie.

Da allora fu attore e sceneggiatore, ma poi la produzione lo assorbì definitivamente e grandi registi e grandi film li dobbiamo a lui.

La dolce vita fu l’approdo e il coronamento, uomo ricco e di successo com’era avrebbe potuto cedere, lasciar perdere, i problemi di finanziamento erano davvero enormi, il film preoccupava per la lunghezza (quattro ore) e la stranezza dell’argomento, di Fellini non tutti si fidavano, cinque successi e due Oscar per La Strada e Le Notti di Cabiria non bastavano a far dormire sonni tranquilli ai produttori e questo film era così strano, così misterioso, neppure gli attori avevano la sceneggiatura. Flaiano un giorno arrivò con una cartellina con pochi fogli e il suo eterno sorriso sornione, Fellini era incontrollabile, sgusciava come una biscia con quella vocina sottile e i diminutivi, caro Marcellino, caro Lorenzino, caro nonsochi, ma poi non cedeva di una virgola.

400 milioni, non una lira di più, fu l’ultimatum del cavalier Rizzoli che aveva comprato i diritti da De Laurentis in cambio de La grande guerra.

De Laurentis non si pentì, Monicelli era sempre Monicelli, ma al vertice della top ten restò lui, Fellini, e tutti lo sanno.

Comunque di soldi ne spesero il doppio, anche se oggi sono cifre da ridere.

Il 4 marzo del 1959 iniziarono le riprese, l’anno dopo La dolce vita uscì e il resto è storia nota.

Nel documentario c’è un’interessante documentazione sugli oppositori, gli anatemi, le suppliche alla Santa Vergine. Erano tempi di grandi passioni e il cinema catalizzava molto.

Chi ne decretò il successo fu il pubblico, le masse affollarono le sale, “la dolce vita, dice Bertolucci, " divennela dolce vita” dopo il film”, Fellini in studio raddrizzò Via Veneto, eliminò quel gomito che ha sotto l’Excelsior, e vista così, nel film,  diventò quel mito che regge ancora oggi.

 

Peppino se la godette tutta, dall’alto della suite che abitava fisso nell’albergone degli americani coi soldi, era come essere dentro il film, fino a quel maledetto giorno, il 3 febbraio, in quella discesa che Fellini aveva raddrizzato a Cinecittà. Il cuore si fermò e lui lo lasciò lì, dove aveva battuto forte negli ultimi mesi.

A Via Veneto.

scena

La verità su La dolce vita (2020): scena

 

 

www.paoladigiuseppe.it

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