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La stanza

Regia di Stefano Lodovichi vedi scheda film

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La recensione su La stanza

di mck
7 stelle

Un bead & breakfast della memoria.

 

 

Nel terzo lungometraggio cinematografico che Stefano Lodivichi (classe 1983) ha licenziato dopo gli interessanti “Aquadro” e “In Fondo al Bosco” (e una “deriva” nella serialità televisiva di media fattura con “il Cacciatore” e “il Processo”) il massiccio impianto teatrale impera, manifesto e ingombrante, tanto nella parte temporale (anche se vi è un’unica, netta cesura a nero/luci/sipario fra un ideale atto e l’altro) quanto in quella spaziale

-{con la claustrofobia (non è né l’OverLook Hotella magione jersey-cantabrica a cui Amenábar diede il proprio giro di vite alle cerniere degli scuri) che soffoca ogni respiro ad una qualsiasi alternativa realist(ic)a: anche se il film, alla fine, non sceglie/spiega/rivela verso quale parte possa propendere la propria natura misterica, innervando l’apologo morale fantastico di vaghe possibilità etiche fantascientifiche ed essendo, alla fine, più un “A ChristMas Carol at Owl Creek Bridge” con assonanze da “Legion” (così come, per altri versi, da “Alpeis” e “Family Romance, LLC”) che un “Primer” (Shane Carruth) o un “la Jetée” innestato con un “Da Grande”/”Big” inverso - indizio: beve l’acqua dal bicchiere tenendolo con due mani - anche solo abbozzati [inoltre, coevi di “la Stanza” (che, a latere, è uno dei primi film in tempi di SARS-CoV-2/CoViD-19 ad avvalersi di un servizio di consulto e supporto medico-infermieristico quale Gemelli A Casa) sono “the Turning” di Floria Sigismondi e “the Haunting of Bly Manor” di Mike Flanagan, e, d'altro canto, "Shadows- Ombre" di Carlo Lavagna], mentre di rilevante importanza - letteralmente esplicitata - è la questione polieziologica dell’hikikomorismo: il collage tematico è un ambizioso mash-up polisemico non sempre a fuoco, spesso ingenuo assai, ma a tratti avvincente}-,

riuscendo però, ad ogni modo, col rendere il set (senza scomodare, che so, “Black Narcissus” - ecco, non scomodiamolo, dai -, vi è una brevissima inq.ra semi-fissa in oggettiva irreale di raccordo dell’azione in controcampo che dall’esterno veramente finto guarda verso l’interno fintamente vero, o viceversa ) un personaggio fatto e finito, a tutto tondo (le scenografie sono di Massimiliano Sturiale, la direzione artistica di Adriano Cattaneo e l’arredatrice è Ilaria Fallacara), che s’interfaccia bene con l’autentica forza motrice del film, oltre alla buona regìa, vale a dire, come già si diceva, l’ottimo e affiatato trio d’attori in campo

– composto da Guido Caprino (“Noi Credevamo”, “Fai Bei Sogni”, “1992/1993/1994”, “il Miracolo”, “Tutti per 1 - 1 per Tutti”), Camilla Filippi (“la Meglio Gioventù”, “Buoni a Nulla”, “Tutto Può Succedere” e “il Grande Passo”, più “In Fondo al Bosco” e “il Processo” per/con il regista-consorte) ed Edoardo Pesce (“il Ministro”, “Fortunata”, “DogMan”, “gli Indifferenti”, e già al lavoro per/col regista ne “il Cacciatore” e nella prossima “Christian”), mentre l’attore-bambino non è diretto al meglio e la sua caratterizzazione pecca di qualche forzatura –

che riesce a rendere potabile anche quella piccola - ma sensibil(izzant)e - parte di respingenti dialoghi [soprattutto quelli di raccordo e riempitivi, non quelli (im)portanti e costruttivi] à la “In the Market” (“Chissà perché i bagni stanno sempre in fondo a destra?!”, e no, Gaber non c’entra, ma forse Confucio o Platone sì, chissà) che costituisce il difetto princip(al)e della sceneggiatura scritta dal regista con Franceco Agostini (proveniente dalla produzione documentaria: “Luna Italiana” e “Sono Innamorato di Pippa Bacca”) e Filippo Gili (attore e scrittore del testo teatrale “Prima di Andar Via” messo in scena per il cinema da Michele Placido) i quali, alla fine, sentono il bisogno di riversare sullo spettatore, a forza di lampi analettici, un se pur breve riepilogo/spiegone del tutto superfluo relativo ad alcune scene di snodo narrativo e di pre-disvelamento evidentemente ritenute ambigue/controverse e riproposte in flashback, quando in realtà l’agnizione è già scattata e intervenuta da un pezzo, più o meno da un’ora buona, con l’unico esito di instaurare una ridondanza sgradevole...

 

[Lo so, lo so, abbiate pietà, ma oramai 'sto paragone ce l'ho in mente e per esorcizzarlo tocca farlo vedere pure a voi...]   


E qualche tassello struggente.

“Dici che l’avrebbe fatto anche per noi due?”

 

Prodotto da Lucky Red (Andrea Occhipinti) e distribuito da Amazon. Fotografia di Timoty Aliprandi. Montaggio di Roberto di Tanna.
Musiche originali di Giorgio Giampà; con in più, in aggiunta, sui titoli di coda, “New Kind” di Gyda Valtysdottir, e, poco dopo l’inizio, librandosi sull'assito del palcoscenico/set, a mezza via fra (per i gnubbi: il sarcasmo è su "ON", anche se ogni scherzo contiene un frammento di verità) pregnante reminiscenza e significante attinenza, l'Umberto Tozzi - "the Wolf of Wall Street" scansati - di:
Colorando il cielo del sud
chi viene fuori sei tu, sei tu.
Colorando un figlio si può
dargli i tuoi occhi se no... se no
che torno a fare a questa porta?
Voglio tenerti fra le mie braccia,
altrimenti torno a lei, lo sai.
Per questo Stella stai.
Scivola, scivola, scivola, scivola, scivola, scivola, scivola, scivola…

 

E attori, attori, attori. L'ho già detto? E lo ripeto. Ampia sufficienza raggiunta grazie al terzetto di protagonisti (assoluti).

 

Un ritorno (d)al futuro attraverso un bead & breakfast della memoria (con abbraccio incluso nel prezzo).

E buttiamoci dentro pure "Solaris", toh, ma sì, perché no?

* * * (¼) – 6.375    

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