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Bisturi, la mafia bianca

Regia di Luigi Zampa vedi scheda film

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La recensione su Bisturi, la mafia bianca

di lamettrie
9 stelle

Un gran film. L’ennesimo sottovalutato di un grandissimo come Zampa, qui al top delle proprie capacità drammatiche. Di certo al “potere” non può piacere in quanto lo denuncia (da qui la damnatio memoriae, che così spesso ha afflitto il regista romano). Qui lo fa prendendo a pretesto una metafora come quella del medico: potente per eccellenza, decide della vita e della morte, spesso con logiche che vanno al di là delle imposizioni che la realtà oppone, e al giuramento di Ippocrate, a quel codice deontologico che obbliga a salvare chiunque, indipendentemente di qualunque altra considerazione.

Straordinaria, per la vividezza, l’incursione all’interno della professione medica, che è poi la più vicina alla vita di tutti i giorni, per le proprie anche drammatiche implicazioni.

Notevole è la profondità del protagonista: effettivamente sembrano non esserci dubbi sulla sua serietà e bontà, almeno all’inizio. Eppure si vede come costui, accecato dal’ambizione, dall’avidità, sacrifichi i suoi doveri, in modi che restano comunque in apparenza accettabili (il medico può sempre ripararsi di fronte al caso disperato …ma solo lui sa se è vero, o se non è una menzogna per giustificarsi ed evitare problemi, e i suoi colleghi lo sanno benissimo, mentre tutti gli altri/tutti noi …).

Epico il finale: l’utilizzo della burocrazia per legittimare la fine degli oppositori alla propria carriera. Tra professionisti non si sbaglia mai (come dalla sentenza di “Boogie” di Paolo Conte), a maggior ragione ai massimi livelli. Non si sbaglia neppure quando si confeziona il delitto perfetto.

Nel ’73 il film attraversa, e mai banalmente, tutti i grandi nodi dell’attualità politica, in ambito sanitario e non solo: contestazione contro il potere, aborto, attacco alla DC e al suo favoritismo verso le strutture religiose… Si era all’epoca d’oro del cinema serio, quello che denuncia gli obbrobri politici, e lo fa senza sconti, tanto che il protagonista agisce a livello politico con le nazionalizzazioni di ospedali e aziende farmaceutiche, come desideravano i comunisti, ma poi sa palleggiarsi da navigato uomo di potere, corrotto. Proprio la corruzione viene denunciata come centrale, quella del mondo sanitario pubblico/privato e quella, tanto straripante quanto nascosta dalla disinformazione voluta e pagata, delle aziende farmaceutiche. I ricatti per la carriera sono pedine di uno scacchiere che prevede il calcolo centellinato su centinaia, se non migliaia, di variabili tutte assieme.

Per Zampa si tratta di un approfondimento, in chiave più virile e scientifica, dell’immortale “Il medico della mutua”, cinque anni prima con Sordi. Ma anche qui gli attori non fanno una piega: Salerno, Ferzetti, Gora e i caratteristi recitano alla perfezione, agevolati da una sceneggiatura impeccabile, nel climax che porta a un finale strepitoso. I dialoghi sono di alto livello: specie quelli imbastiti dall’accusatore, quel Salerno che è grande sia nell’onestà (dote che paradossalmente, ma mica tanto, gli ha fatto perdere ciò che i meriti  dovevano portare alla sua carriera), sia nell’inscenare una tristezza esistenziale, sia nel gioiello del film, il dialogo con la suora. Costei è una splendida Senta Berger, che rinuncia all’amore per il medico Enrico Maria Salerno per i propri superiori ideali, ma solo dopo aver onestamente messo a nudo tutta la sua passione per lui, peraltro ricambiata e ammessa con uguale ammirevole onestà: una versione eccellente del sacrificio (che non viene affatto a priori giustificato né biasimato) della relazione sentimentale/sessuale cui vanno incontro i religiosi, e non solo loro.

Alla fine si scorge nitido il male del carrierismo, dell’arrivismo, del calcolo individualistico che fa annegare ogni senso di onestà e giustizia. 

Splendide anche le musiche di Riz Ortolani, la fotografia (molto impegnata nella prese dirette dei volti, soprattutto nella concitazione della sala operatoria) e il montaggio. Ma splendido è anche il messaggio finale: la malattia è qualcosa di democratico; nessuno è un padreterno rispetto ad essa, che può colpire chi si sente divino come lasciare illeso, molto più a lungo, anche il tapino.

E notevole è anche la denuncia del male (Epicuro…) che non è compatibile né con la provvidenza né con un ordine complessivo buono delle cose, tale quale Dio non può non volere. Incisiva è la frase della suora, che apostrofa un’altra suora la quale rimproverava una donna freschissima vedova (e che purtroppo da lì a poco si suiciderà, in una Milano innevata e quindi ancora più caratteristica e scostante), donna che denunciava Dio per aver permesso la morte del giovane marito: «Ancora peggio è chi è insensibile a un dolore come questo». Un Dio dell’ordine buono che risulta non credibile, ma che può lasciare spazio a un Dio della compassione, che dell’ordine sa di non farsene nulla.

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