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Fight Club

Regia di David Fincher vedi scheda film

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RAGIONTRAVOLTA

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La recensione su Fight Club

di RAGIONTRAVOLTA
8 stelle

I viaggi più lunghi sono quelli che si compiono nella memoria, e proprio da un'interminabile carrellata-soggettiva della memoria del protagonista comincia il nostro viaggio. Le riflessioni d'un uomo minacciato; la descrizione, minuziosa ed acuta, delle sue fobie; la rappresentazione cromatica di un paesaggio fintamente reale, e realmente fittizio, come un dipinto che aspirasse, frustrato e non cosciente, alla vita. Questi sono gli elementi che ci introducono nel delirante mondo-palcoscenico creato da David Fincher. Un mondo abbastanza laido e spazioso da farci entrare, tutti in una volta, gli incubi e le ossessioni di fine millennio, le paure e i desideri più inconfessabili, gli istinti primordiali e l'incoscienza dell'esistere.
Tutto è volutamente esasperato: la ricerca del dolore, autentico, per sublimare i propri patimenti indotti, la scoperta della sofferenza altrui come atto di catarsi, un lacrimoso sfogo di tensioni fatte proprie. E un vampiresco bisogno di contatti umani; contatti fisici, o almeno creduti tali, nella incessante e quasi sempre vana ricerca della comunicazione, dell'intersoggettività, dell'appartenenza a un tutto collettivo che inevitabilmente sfugge, o si ripiega su sè stesso, rendendosi inaccessibile.
E' questo il tormento dell'essere per il giovane Jack, figlio modello della società dell'immagine, fiero esempio di edonismo contemporaneo, ma in fondo inessenziale ingranaggio di un meccanismo divoratore di sè stesso, che diverrà tardivamente conscio del proprio status di consumatore auto-consumantesi, di vittima e carnefice al tempo stesso, di comparsa, insomma, di uno spettacolo più grande di lui, che sfugge al suo controllo e il cui copione, perverso ed alienante, non è dato poter conoscere.
Il contatto, e lo scontro fisico, sono visti da Jack come strumento di emancipazione, unica via di scampo al desolante e ripetitivo susseguirsi di giorni vuoti e senza scopo. L'incontro col ribelle Tyler gli ha cambiato, in meglio, l'esistenza.. sapremo, all'epilogo, dei nuovi e più terribili compromessi che Jack e la sua coscienza dovranno accettare, nell'illusione d'una libertà tanto agognata quanto, in effetti, tristemente irraggiungibile.
L'alterazione delle percezioni e la smania distruttiva altro non sono che i sintomi della patologia autolesionistica di Jack, attore, suo malgrado, in un film scritto da altri, marionetta manovrata dalle convenzioni e dalle mode, timorato ed infelice suddito di Nostro Re Denaro, adepto (pentito) del Verbo del Consumismo, moderna religione. Jack esce da sè stesso e si osserva, ma neanche allora si piace. Ecco allora riaffiorare le ansie e i turbamenti, i condizionamenti morali, i freni inibitori ..non c'è davvero scampo, Jack ha creato un sistema capace di distruggere il sistema che ha creato lui, o meglio: il vecchio sè stesso. Ma questo è un sistema di mostri, di automi acerebrati e di mafiosa autoreferenzialità: proprio come quel mondo che si prefigge di poter correggere; ne ha ereditato i vizi e le abiezioni. L'unica soluzione è la resa, la repressione delle velleità di ricostruzione, l'accettazione di una condizione infelice e incompleta: l'essere una sola metà di sè stessi; non più rinascere dalle macerie di un vissuto ostile, ma sopravvivere, sparando un colpo in testa ai propri istinti.

Su Edward Norton

Perfetto, allucinato, anti-eroe per eccellenza, sè ed altro da sè.

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