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Lei mi parla ancora

Regia di Pupi Avati vedi scheda film

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La recensione su Lei mi parla ancora

di steno79
6 stelle

Pupi Avati è un grande professionista del cinema italiano, per cui si prova rispetto, ma non è la prima volta che usciti da un suo film si prova anche un po' di delusione. Questo "Lei mi parla ancora" é tratto dal romanzo omonimo di Giuseppe Sgarbi, scritto a 93 anni, è un'operazione produttiva che guarda ad un passato idealizzato secondo le modalità di molti precedenti film del regista e con quell'ideologia che qualcuno ha definito "rinunciataria" tipica soprattutto dei film bolognesi di Avati. A mio parere la cornice narrativa con la storia del ghost writer occupa fin troppo spazio e non é gestita al meglio, dando luogo ad alcuni siparietti non certo irresistibili in cui é coinvolto l'incolpevole Fabrizio Gifuni, e poi credo sia un'aggiunta arbitraria rispetto al romanzo, che non ho letto ma non credo proprio contenesse alcun riferimento a questa vicenda. Per il resto, numerosi flashback sulla coppia giovane animati soprattutto dalla recitazione sempre affidabile della Ragonese, mentre il suo partner Lino Musella risulta un po' sottotono, ma sarebbe stato opportuno inserire qualche scena anche della coppia negli anni più maturi, anche per dare un minimo di senso al coinvolgimento di Stefania Sandrelli, che nel film così come lo vediamo ha una partecipazione minima e in fondo insignificante, al pari di Alessandro Haber. Avati riesce a trasmettere a diverse sequenze un estro visivo non indifferente, con un'ottima scelta delle location soprattutto nelle scene del passato, così come in quelle ambientate nella villa della famiglia Sgarbi al giorno d'oggi, si avvale di un cast in cui spicca la presenza di un insolito Renato Pozzetto, ben calibrato sui toni mesti e nostalgici del personaggio, affiancato da un'efficace Chiara Caselli e da un Gifuni non al suo meglio ma pur sempre in grado di lasciare il segno. I 90 minuti scorrono in fretta ma non lasciano sensazioni memorabili, si apprezza qualche trovata qua e là come l'omaggio al "Settimo sigillo" di Bergman nella scena al cineforum, ma manca una scrittura più incisiva e personale che avrebbe dato più spessore a molti passaggi e brani che restano un po' buttati a casaccio. Come Woody Allen in America, Avati vorrebbe mantenere la media di un film all'anno perfino in tempi di Covid, non riesce a restare inattivo, ma di fronte al pericolo di altri passi falsi come furono "Il cuore grande delle ragazze" o "Un ragazzo d'oro", fra quelli da me visti, un po' di riposo in più non guasterebbe. 

Voto 6/10

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