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L'umanità

Regia di Bruno Dumont vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su L'umanità

di ed wood
8 stelle

Opera seconda di Dumont, è probabilmente il suo film “di riferimento”, quello che dispiega in modo compiuto e già maturo forme e contenuti del suo cinema. Forme soprattutto. Se c’è un cinema che più di ogni altro vive di pura forma, regia, messinscena, sguardo insomma, nel panorama contemporaneo, è quello di Dumont (almeno il Dumont “classico”, fino ad “Hors Satan” del 2011, prima della controversa deriva comica-musicale-storica-divistica-televisiva dell’ultimo decennio). Se ci sono dei contenuti in “L’umanità” (e potremmo elencare: la crisi esistenziale, l’elaborazione del lutto, la tentazione erotica, l’orrore e la pietà di cui è capace “l’umanità”, la ricerca di una presenza metafisica nel paesaggio, il peso della Storia e dell’arte nella figura del pittore bisnonno del protagonista), questi non sono mai esplicitati dal testo (essenziale) o dalla psicologia (assente), ma sempre indotti dalla radicalità e persistenza dell’impianto stilistico. E’ un film che sussiste di lunghe sequenze che potrebbero definirsi “d’antologia”, ciascuna delle quali vive di luce propria in virtù di una tensione onnipresente data proprio dal modo in cui sono girate, indipendentemente dagli snodi narrativi di cui si fanno carico. Sequenze cariche di mistero, allusive forse, enigmatiche nonostante (o forse proprio per) la banale quotidianità di cui sono intrise; pagine di tempo cinematografico in cui lo spettatore è chiamato a leggere fra le righe. Ne analizziamo alcune provando a trarre interpretazioni e seguendo fili tematici, consapevoli della sostanziale ed affascinante inafferrabilità ed indicibilità del film nel suo complesso.

 

 

Sesso.

Molto comune in Dumont, spesso violento. Talvolta esplicito, talaltra implicito. Qui abbiamo due inquadrature quasi identiche di una vagina: quella glabra e violata del cadavere della ragazzina, e quella villosa e rifiutata (dal protagonista Pharaon) della giovane Domino, il cui pianto di frustrazione fa capolino fuoricampo. Due immagini identiche, ma proposte in contesti diametralmente opposti, quello di un amplesso non voluto (uno stupro) e quello di un amplesso cercato ma non ottenuto. Uno conduce alla morte, l’altro al pianto. La vagina mostrata a Pharaon (in lutto per aver perso morosa e figlia, uno dei tanti misteri dello script) ha forse su di lui lo stesso impatto di quella slabbrata del cadavere, o forse gli ricorda quella della compianta fidanzata: al di là di questa possibile spiegazione psicanalitica/traumatica, resta una (doppia) immagine shock che non è affatto gratuita, ma coerente con la componente “primaria” del cinema di Dumont. C’è poi il sesso esplicito fra Domino e il suo ragazzo, il bullo Joseph, ripresi in tre amplessi sempre più spinti, e quello implicito della tentazione di Domino nei confronti di un aitante amico di Pharaon (sequenza straordinaria, fra sguardi eloquenti e dettagli genitali mai volgari).

 

 

Violenza.

Il film tecnicamente è un giallo, e anche ben strutturato. E questo fa tenere alti interesse e tensione per l’indagine in corso, che si sommano quindi a quelli suscitati dallo sviluppo dei rapporti fra i personaggi, in un intrigante doppio filo. Se l’immagine del cadavere è scabrosa, la violenza in realtà è in tutto il film qualcosa di sotterraneo, sempre in procinto di deflagrare. Ad esempio, la sequenza apparentemente buffa della tavolata di ubriachi che importunano Domino e un’altra donna, istigandole a bere alla goccia, è girata in modo da creare disagio anche nello spettatore: il filo di voce con cui le due donne rassegnate ed intimidite rivelano il loro nome ai balordi e la sostanziale “obbedienza” al loro diktat (bevono il vino come se avessero il fucile puntato addosso) suggeriscono che la sequenza possa valere come una sottile allegoria di uno stupro. La maleducazione, l’arroganza, l’ignoranza (di fatto, forme “soft” di violenza) tornano più avanti, con le vittime diventate carnefici: ed ecco la sequenza della visita al forte, con le sceneggiate vandaliche di Joseph.

 

 

scena

L'umanità (1999): scena

 

 

La Storia e l’arte.

Il forte vilipeso dall’urina di Joseph simboleggia velatamente la mancanza di memoria storica, la recisione di un qualsiasi legame culturale col passato, col retaggio storico della propria terra. Joseph è questo, un barbaro, un nemico della civiltà. Pharaon invece è l’esatto opposto: egli è così inondato di Storia, di memoria, di passato, che pare sobbarcarsi il peso di tutto il dolore del mondo, di ieri e di oggi (e gli abbracci sono una costante nella seconda parte del film). Risulta così comprensibile il riferimento al bisnonno omonimo pittore (realmente esistito!), della cui malinconica alterità Pharaon pare quasi essere una reincarnazione: l’intensità con cui guarda al quadro che ha appena ceduto alla pinacoteca (simbolo di una volontà di recidere, a sua volta, i legami col passato) è la stessa con cui contempla il paesaggio.

 

 

Paesaggio.

Protagonista dei film di Dumont, il paesaggio pianeggiante del nord della Francia è il controcampo perfetto agli sguardi persi dei suoi personaggi, all’insondabilità delle loro anime, al vuoto delle loro esistenze. I film di Dumont ambientati in un paesaggio alpino o metropolitano non suonerebbero allo stesso modo. C’è una collinetta a cui ogni tanto Pharaon volge lo sguardo, in un tentativo di elevazione spirituale, che non riuscirà a raggiungere materialmente (il fallimento nella salita in bicicletta), ma solo metafisicamente (ossia, cinematograficamente, giacché il cinema per Dumont è l’unica metafisica possibile), in una sequenza di levitazione che riesce ad essere miracolosamente credibile e che battezza un nuovo secolo di cinema d’autore irrazionalista (Reygadas, Apichatpong, Schrader, senza contare quelli scarsi). Ma il confronto col paesaggio non significa soltanto innalzamento, metafisica, sospensione; spesso significa invece affanno, urla rabbiose, cadute nel fango. Ad inizio film, Pharaon annusa il terreno, cercando di cogliere in esso una qualche “verità”; nella fase finale del film, annuserà (fino a baciare) due rei confessi, due individui che hanno scelto il Male. Forse quel Male era già percepibile in quel fango, in quella terra odorata all’inizio? Forse la terra, che è fonte di vita e quindi di Bene, ha lo stesso odore dei due malviventi?

C’è molta filosofia in tutto questo, c’è metafisica, c’è disquisizione morale e religiosa: ma tutto ciò scaturisce da un approccio materico, fisico, sensoriale ed immersivo.

 

 

Bresson.

Dumont è considerato un bressoniano. Non lo è nei dettagli della messinscena, puntando più sulla composizione interna dell’inquadratura che sulla significazione data dal montaggio. Ciò che lo accomuna al Maestro è però quel senso di mistero che riesce ad evocare dalla laconicità delle sue immagini, oltre all’ambientazione campagnola, alla presenza dei giovani, alle tentazioni metafisiche, alla resa quasi “autistica” di alcune scene connotative (la musica barocca dell’autoradio di Pharaon come stolido commento al paesaggio; i versi infantili di Joseph mentre ascolta musica techno; la rigida gestualità di Pharaon mentre segue una partita alla TV o mentre ferma l’autobus), ma soprattutto alla scelta e direzione degli interpreti non professionisti, che qui raggiunge risultati sublimi, non solo nella fisionomia delle facce (volti “fiamminghi” dal fascino ambiguo, attraenti e terrorizzanti al contempo) ma nella loro complessa resa espressiva.

 

 

scena

L'umanità (1999): scena

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