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Arkansas

Regia di Clark Duke vedi scheda film

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La recensione su Arkansas

di mck
8 stelle

A Country Boy Can Survive in the Arms of Cocaine.

 

 

«Molti non sanno che la criminalità organizzata del Sud non è poi così organizzata. Il termine Dixie Mafia è sempre stato un po’ troppo generoso, implica dimensioni troppo grandi. Una manciata di grossi operatori gestiscono tutto a livello regionale, ma nulla di simile agli italiani e ai messicani, niente famiglie. Solo un’affiliazione libera di fannulloni e stronzi. Nessun codice d’onore, nessuna filosofia di vita.»

 


Arkansas” (la cui pronuncia - informazione per il volgo -, riferendosi allo stato e non alla città, è “arcansaw”, ovvero “àrcanso”), il southern neo-noir/pulp tratto dall’omonimo ed “ovviamente” congenere romanzo d’esordio (cui seguiranno “Citrus County”, “A Million Heavens” e “Further Joy”) di John Brandon, un giovane autore floridense che gravita in orbita McSweeney’s, e diretto, scritto (la sceneggiatura è condivisa con Andrew Boonkrong, pure lui debuttante sulla lunga distanza) e interpretato da Clark Duke (GlenWood, AR, 1985: “Clark and Michael [Cera]”, “Kick-Ass”, “Greek”, “the Office US”, “Kick-Ass 2”, “Two and a Half Men”, “I'm Dying Up Here”, “Veronica Mars”), anch’esso, ma nel suo caso per quanto riguarda la regìa di un lungometraggio, esordiente, è un gran bel film (se bisogna fare un nome per inquadrare ed incasellare meglio l’autore, allora il binomio rappresentato dal Jeremy Saulnier di “Murder Party”, “Blue Ruin”, “Green Room” e “Hold the Dark” e dal Macon Blair di “I Don't Feel at Home in This World AnyMore” è perfetto) la cui maggiore peculiarità è rappresentata dalla disposizione e dalla gestione dei personaggi: due grandi nomi quali John Malkovich e Vince Vaughn (che, qui sulla falsariga del miglior Bruce Willis shyamalan-tarantiniano, continua a tracciare uno splendido percorso craigzahleriano dopo “Brawl in Cell Block 99” e “Dragged Across Concrete”) rispettivamente appaiono e scompaiono ed ellitticamente attraversano la storia, mentre il protagonista e il co-protagonista spesso si scambiano i ruoli: il primo, Liam Hemsworth (che dei tre fratelli - il Luke di “WestWorld” e il Chris di “Star Trek” e “BlackHat” - è il più giovane e ad oggi il meno dotato, conosciuto per la partecipazione alla saga di - vedi qui sotto / più avanti - “Hunger Games”), non “riesce” mai a “fare suo” il film (ma non è un difetto, è una caratteristica della narrazione), mentre il secondo, vale a dire proprio il già citato Clark Duke, giust’appunto spesso e volentieri subentra fagocitando il bagaglio di empatia messo a disposizione dell’opera.

 


- “[Qualcosa su Sandra Bullock.]”
- “Scusami, ma quelle riviste sono il campanello d’allarme della civiltà occidentale.”
- “Smettila! Sono divertenti…
- “È dilagante materialismo rampante. Tutto quel culto della celebrità e la cultura trash sta facendo impazzire tutti quanti senza che nessuno se ne accorga.”
- “Vada avanti, professore.”
- “Cosa… cosa pensi che significhino tutti quei film di zombie e storie post-apocalittiche di questi ultimi anni?”
- “Eh?”
- “Tutti quei romanzi per ragazzini in cui rovesciano il governo e si combattono fra loro a morte?”
- “Ma di che stai parlando?”
- “È proiezione di massa. Tutti vogliono che il mondo finisca, perché se è questo che è diventato il Sogno Americano, vogliono tirarsene fuori e dissociarsi.”
- “Da che cosa?”
- “Da tutta questa fottuta società del cazzo!”
- “È questo che pensi di aver fatto? Di esserti dissociato?”
- “Touché.”
- “Eh-eh.”
- “Vuoi conoscere la Grande Rivelazione? Non ci si può dissociare. Io ci ho provato, e non è possibile. Credevo di avercela fatta. Ma guardami… Eccomi qua: sono comunque finito con un capo, un lavoro, un collega strambo e un bebè in arrivo.”
- “È un maschietto.”

 


Chiudono il gran cast: Eden Brolin (che qui carica un bel po’ di più sull’accento che già sfornava in “YellowStone”, mentre i titoli di coda scorreranno - assieme a qualche lacrima - magnificamente sul suo volto), Michael Kenneth Williams (“the Wire”, “BoardWalk Empire”, “Hap and Leonard”, “the Night Of”, “When We Rise”, “Lovecraft Country”,“When They See Us”), Vivica A. Fox (“Kill Bill”), Barry Primus (“Puzzle of a Downfall Child”, “BoxCar Bertha”, “New York, New York”, “Absence of Malice”, “Down and Out in Beverly Hills”, “Mistress”, “American Hustle” e ancora con Martin Scorsese per “the IrishMan”) e Charles Duke (fratello minore del regista, interpreta un personaggio ancora più "spostato" e proprio al fianco di Primus, col quale ha studiato al Lee Strasberg Theatre & Film Institute di NY).

 
Bellissimo momento di sintassi e grammatica cinematografica quando, in occasione di uno degli omicidi più importanti, il suono diegetico dello sparo scompare - ma non l'azione dello sparo, che vediamo, e della quale, per l'appunto, non comprendiamo l'accadere - venendo sostituito dalla musica extradiegetica.


Fotografia di Steven Meizler (“the GirlFriend Experience”, “GodLess”, “the OA”, the Queen’s Gambit”). Montaggio di (e sì, si chiama proprio così) Patrick J. Don Vito (“Three Christs”, “Green Book”). Musiche originali del grande Devendra Banhart e Noah Georgeson (che già avevano collaborato per “Joshy”), mentre quelle di repertorio (a mo’ di coro greco: “He Stopped Loving Here Today” di George Jones, “Lookin’ for Love” di Johnny Lee, “All the Gold in California” di Larry Gatlin e the Gatlin Brothers, “the Night They Drove Old Dixie Down” di Robbie Robertson & the Band, “A Country Boy Can Survive” e In the Arms of Cocaine” di Hank Williams, Jr.) sono tutte cover reinterpretate dai Flaming Lips, from Oklahoma. Produce un po’ di gente, distribuisce LionsGate (che in tempi pandemici di malattia respiratoria acuta passa la palla ad Amazon). L’Arkansas interpreta sé stesso con l’aiuto dell’Alabama.

 


«Lo dicono molte scuole di pensiero, ma in parole semplici: essere la scimmia più sofisticata ti rende anche quella più confusa, quindi intraprendere un’azione, una qualsiasi azione, è un modo per alleviare quella confusione.»

* * * * (¼)   

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