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Rosie

Regia di Patrice Toye vedi scheda film

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La recensione su Rosie

di degoffro
6 stelle

ROSIE
Rosie ha tredici anni e vive con una madre Irene, molto giovane ed inquieta che non vuole essere chiamata mamma, ma vuole essere considerata una sorella, perché quando l’ha avuta non aveva nemmeno quattordici anni e desidera che quello rimanga il loro, intimo, segreto. Rosie non ha mai conosciuto il padre, dunque, ma conosce i molti uomini che la mamma si porta in casa, uomini che, a volte, la donna chiude addirittura fuori, sul balcone, completamente nudi, tanto ne è esasperata, e nei confronti dei quali Rosie non perde occasione per manifestare il suo disappunto: “E’ di nuovo qui: ma non l’avevi sbattuto fuori quel deficiente?”. E anche quando la madre le dice: “Non ci voglio più nessuno nel mio letto”, rassegnata e consapevole è la risposta della ragazzina: “Tanto non ci credo: lo so che non ne puoi fare a meno!”. E infatti per spassarsela con il compagno di turno dà dei soldi alla figlia, perché esca di casa e si diverta, visto che è sabato sera: “E resta fuori per qualche ora!” è la sua raccomandazione. L'unico uomo della famiglia è lo zio Michael, giovanotto spiantato e bugiardo che campa sulle loro spalle. Senza lavoro (e non lo cerca nemmeno), vivacchia a casa, buono solo a scommettere pesantemente sui cavalli, tanto da chiedere di continuo prestiti alla sorella. L’uomo poi assilla di continuo Rosie con domande a raffica sul suo presunto ragazzo, ma la presenza ingombrante del fratello pone anche definitivamente in crisi il rapporto di Irene con il compagno Bernard, che la mette alle strette: “Devi scegliere Irene”. Inequivocabile la risposta della donna: “E’ più di un fratello”. In questa condizione di ansia e di precarietà Rosie si costruisce un mondo immaginario, in cui ogni desiderio è esaurito, dove possa essere la protagonista eroina dei molteplici romanzi d’avventura che tanto la appassionano. In questa realtà parallela è così possibile incontrare il tanto desiderato principe azzurro (“Lui stava là scalpitante, come un giovane dio”), identificato in Jimmy, giovanotto visto su un autobus e da cui è stata soccorsa dopo essere stata investita da un auto. Si può così cercare di conquistarlo, magari truccandosi, provando e riprovando le parole giuste davanti allo specchio: “Io ti voglio, sei il mio principe azzurro. Vuoi farlo con me?” E questo principe azzurro diventa così un inseparabile compagno di giochi e di trasgressioni. Trasgressioni che vanno dallo scippare un anziano, fingendo di chiedergli i soldi per l’autobus, al rubare un paio di stivali da un negozio, guidare un auto ad occhi chiusi, sfidando il pericolo, ai limiti della follia, o addirittura rapire una bambina e chiamarla Elvis, quasi a volere imitare la madre e rivivere la sua identica esperienza, salvo poi rendersi conto che forse è un impegno troppo grande per essere portato avanti da sola, quindi meglio lasciare la piccola alla prima casa a cui si suona. Nemmeno le raccomandazioni della madre (“Rosie il principe sul cavallo bianco non esiste”), già scottata da precedenti delusioni amorose (quando era rimasta incinta di Rosie i genitori le avevano impedito di vedere il ragazzo che così lei aveva aspettato invano alla finestra) Rosie continua a fantasticare per allontanarsi da quella realtà scialba, grigia, anonima di una squallida città della monotona periferia belga. Il desiderio di aiutare la madre rispetto alla quale vive un rapporto di inadeguatezza ed inferiorità (“Mi piacerebbe essere come lei, ma assomiglio ad una rana” oppure “Ti vergogni di me: scommetto che non ti importerebbe se non ci fossi più. Tu non mi vuoi bene”, le sussurra mentre la donna dorme a fianco del suo uomo) la porterà anche a cercare di eliminare lo zio, presenza troppo ingombrante e da cui la madre non riesce a liberarsi, mandando a fuoco la casa, ma il suo tentativo fallisce. Quando poi lo zio la raggiunge alla vecchia impalcatura sulla quale Rosie è abituata a rifugiarsi ed isolarsi per leggere e sognare di volare, ne causa accidentalmente la caduta da una torre e poi lo lascia gravemente ferito a terra, perché è giusto che muoia. Nel finale la madre va a prendere Rosie in un centro di detenzione, dove sono rinchiuse “le matte oppure quelle che hanno ammazzato qualcuno”. La piccola Rosie potrà, finalmente libera, mettersi a ballare per la strada, sognando di farlo con il suo immaginario principe azzurro. Esordio nel lungometraggio della documentarista Patrice Toye. Questa esperienza emerge molto bene nella perfetta costruzione di un’atmosfera desolata, cupa, triste, uggiosa, autunnale, con particolare attenzione nel filmare le strade vuote, i caseggiati tristi, i prati spogli, il cielo grigio, gli interni modesti delle abitazioni, la vecchia impalcatura sulla quale Rosie si isola. Ma assai convincente e inquietante è anche il ritratto di una ragazzina problematica e disturbata, vissuta in un ambiente familiare sfasciato e spiazzante, senza un serio e deciso punto di riferimento maschile se non gli uomini occasionali della madre o l’inetto zio, verso il quale nutre un sentimento di disprezzo e fastidio, con una madre assente (alla donna che esce per lavoro Rosie dice “Sei sempre andata via!”) che si vergogna di presentarla per quella che è ai suoi amanti. L’unica fuga a questo deserto affettivo è il miraggio di un principe azzurro con cui realizzare il sogno di una famiglia sana e felice (vedi l’assai riuscito episodio del rapimento della bambina) ma provare anche le tentazioni della trasgressione, inevitabili per chi è cresciuto in un contesto familiare e sociale così disperato. Peccato però che la fantasia cancelli la realtà e un’adolescente allo sbando si trascini sempre più in azioni irresponsabili e violente. La regista, alternando con intelligenza immagini dal riformatorio con i flashback sulle avventure di Rosie (non sempre il passaggio tra passato e presente è delineato alla perfezione, specie nella prima parte quando lo spettatore resta un po’ spiazzato e non riesce subito ad entrare nella vicenda) e giocando con efficacia tra realtà ed immaginazione ci racconta la storia attraverso l'occhio, la mente, l'ingenuità, e la dolcezza di una bambina di 13 anni, così che anche le azioni meno "accettabili" conservano tuttavia la levità del gioco, la purezza del candore infantile, e per questo forse a noi grandi, fanno anche più paura (il finale mette i brividi). Forse alla lunga il film si fa ripetitivo ed inisistito nelle sue teorie (“qualche compiacimento liricheggiante di troppo e una ossessiva monotonia tematica inquinano la struggente sincerità dell'autobiografismo di fondo” – Morandini), ma viene valorizzato dalla superba prova della piccola Aranka Coppens, perfetta nei panni di Rosie. Un film ambiguo e sottile, capace di trasmettere disagio e sofferenza, un “Fight club” al femminile ma ben più gelido, disturbante e realistico della tanto celebrata e sopravvalutata opera di David Fincher.
Voto: 6/7

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