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The French Dispatch

Regia di Wes Anderson vedi scheda film

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La recensione su The French Dispatch

di Alvy
stelle

Testamento capolavoro di uno dei registi più amati e più odiati dell'ultimo quarto di secolo

 
L'arte di Wes Anderson non lascia mai indifferenti: o la si ama o la si odia. Schegge apparentemente impazzite nel panorama mainstream statunitense, i suoi lavori difficilmente riescono a suscitare giudizi moderati, distaccati o quantomeno indifferenti. La stranezza, in ciò, è che tali reazioni di caratura opposta siano assolutamente giustificabili e giustificate. Il cinema di Wes Anderson è un cinema assolutamente sui generis, assolutamente votato al parossismo più estremo e contraddittorio, assolutamente improntato all'innesto di quanti più possibili conflitti intradiegetici ed extradiegetici, assolutamente deciso a smontare qualsivoglia costruzione archetipica formalizzata nell'ultracentenaria storia della Settima Arte. Fino ad arrivare ad un gesto estremo, coraggioso, forse velatamente narcisistico, ma sicuramente geniale: decostruire la decostruzione
 
 
Può colui che ha fatto della decostruzione narrativa (costi quel che costi) e stilistica (è arcinoto l'effetto straniante e, pertanto, decostruente della glaciale geometricità delle inquadrature andersoniane) arrivare in qualche modo a decostruire stesso? E con quali risultati? 
 
 
Per comprendere la portata di un'operazione del genere, è necessario rispolverare un po' di algebra di base e, in particolare, la regola dei segni ("meno per meno fa più": ricordate?): è tutto qui The French Dispatch, testamento capolavoro presentato in concorso a Cannes 2021 e accolto in maniera discorde (ça va sans dire) dalla critica. 
 
 
Wes Anderson dimostra, con spietata lucidità, l'eterna validità di un teorema centrale di tutte le arti: quando la straordinarietà attacca con successo la classica ordinarietà ferendola a morte, è come se, in qualche modo, perdesse qualcosa della propria identità e finisse per trasformarsi in una nuova ordinarietà, in una nuova classicità. Perpetuare una formula vincente, innovativa, moderna e originale, riuscendo a rivoluzionare, sotto ogni punto di vista, commedia, noir e animazione, significa, al tempo stesso, uccidere quella formula. Significa, in altre parole, rendere classica, solita, già vista quella formula. E, allora, se non si voglia diventare ciò che si è sempre combattuto e che è nemico dell'ispirazione artistica (cioè l'ordinarietà, il compitino, la minima variazione sul già visto), non si può fare altro che prevenire tale degenerazione e uccidersi. Artisticamente parlando, si intende. 
 
 
Wes Anderson dirige e sceneggia, su soggetto co-scritto con Roman Coppola, Hugo Guiness e Jason Schwartzman, un'opera che parodia, deride, ridicolizza e annichilisce 25 anni di lavori personali. The French Dispatch, ad un occhio superficiale, potrebbe apparire un prodotto vanitoso, pretenzioso, ridondante, autoreferenziale, forse finanche una masturbazione intellettuale, stilistica e tematica. Un'analisi di questo tipo può attecchire solo trascurando il percorso del regista originario di Houston, Texas, Stati Uniti. Wes Anderson demitizza il proprio mito (per molti spettatori mai nato), rivela con spietata chiarezza quanto ciò che lui abbia fatto sia ormai classico e, quindi, superato, passato, non più nuovo e destinato ad essere destituito. La sua arte, nata per portare una ventata (anzi: una bufera) di aria fresca, è, dopo un quarto di secolo, aria corrente: inquadrature glaciali, comica ridondanza dei dialoghi, ironia a fiumi, personaggi antieroici ma anche autoironici, aspect ratio da anni Trenta non sono più funzionali alla veicolazione di alcun messaggio perché vecchi, stantii, già visti. Vanno abbattuti: e, prima che ciò accada, meritano almeno un commiato. 
 

Adrien Brody, Tilda Swinton, Henry Winkler, Bob Balaban

The French Dispatch (2020): Adrien Brody, Tilda Swinton, Henry Winkler, Bob Balaban

 
 
Un commiato amaro, amarissimo che il regista mette in scena portando tutte le soluzioni tipiche del suo cinema ad un grado di parossismo quasi isterico: è tutto estremo, tutto vorticoso, tutto frenetico nella delineazione dell'edizione commemorativa del giornale "The French Dispatch", prossimo alla chiusura per volontà testamentaria del fu direttore Arthur Howitzer Jr., interpretato dal sodale di una vita, Bill Murray, deceduto in seguito ad un attacco di cuore. La chiusura del giornale, dichiaratamente ispirato al periodico The New Yorker che il regista iniziò a leggere da ragazzo, simboleggia la presa di coscienza della fine di un percorso, epico per molti e insulso per molti altri, iniziato nel 1996 con Un colpo da dilettanti, flop commerciale ma che vantò, tra i suoi estimatori, anche un certo Martin Scorsese. Ma, prima di chiudere un capitolo così importante della propria carriera, è giusto, forse addirittura necessario, regalarsi un ultimo giro, una finale rievocazione, mediante la ripubblicazione dei tre migliori articoli mai scritti sul "The French Dispatch".
 
 
Questa rievocazione-ripubblicazione è condotta con quell'enfasi tipicamente decadente e crepuscolare tipica dei grandi film-testamento, come, per esempio, Gli spietati di Clint Eastwood, Basta che funzioni di Woody Allen o The Irishman di Martin Scorsese: il primo salutava per sempre l'epica western ed un corpo attoriale che, da quel momento, avrebbe assunto significati differenti, il secondo racchiudeva il senso più intimo di una poetica autoriale, il terzo riusciva miracolosamente a congiungere entrambe le istanze. 
 

Clint Eastwood

Gli spietati (1992): Clint Eastwood

Larry David

Basta che funzioni (2009): Larry David

Robert De Niro

The Irishman (2019): Robert De Niro

Tilda Swinton

The French Dispatch (2020): Tilda Swinton

 
I tre migliori articoli mai scritti sul "The French Dispatch" raccontano tre storie puramente andersoniane. Ma con una differenza sostanziale rispetto al passato del regista: non sono storie di formazione. Non vi è apparente crescita/maturazione nei personaggi, interpretati dalla solita parata di star (una lode va necessariamente tributata, in particolare, a Adrien Brody e Frances McDormand): agiscono quasi senza avere contezza delle proprie azioni, in preda alle esigenze contingenti, come fossero cadaveri in vita dalle idee precostituite. Non robot, beninteso. Ma è come se difettassero della vitale capacità di prendere in mano la propria vita, schiacciati come sono da un mondo più grande di loro all'interno del quale prendono posizioni in base al puro istinto del momento. Personaggi emotivamente trasandati, in un certo senso cimiteriali. 
 
 
Queste tre storie, che danno vita ad una struttura episodica esplicitamente ispirata a L'oro di Napoli di Vittorio De Sica, consentono al regista di dichiarare, una volta di più, il proprio immenso amore per la Francia (in cui, peraltro, vive da alcuni anni) e per il grande cinema francese del passato, non solo giocosamente citato ma osservato quasi col rammarico dell'impossibilità di poterlo anche solo echeggiare in maniera sentita e non squisitamente costruita a tavolino (e, in tal senso, il segmento sul Sessantotto francese, nella sua apparente banalità ed incompiutezza, è estremamente significativo e geniale). Il tutto inserito in un quadro di sentito omaggio al giornalismo e alla carta stampata, del cui profumo smaccatamente tipografico è letteralmente intrisa l'intera pellicola.
 

Timothée Chalamet, Lyna Khoudri

The French Dispatch (2020): Timothée Chalamet, Lyna Khoudri

Mathieu Amalric

The French Dispatch (2020): Mathieu Amalric

 
La summenzionata regola dei segni, derivando dal principio di conservazione delle proprietà fondamentali allo scopo di estendere un'operazione ai numeri negativi, permette a Wes Anderson di innovarsi mirabilmente ancora una volta (non a caso, vi è, anche in algebra, un ampliamento delle possibilità espressive) conservando coerentemente tutte le proprie caratteristiche poetiche (l'algebrica conservazione delle proprietà fondamentali). Un'opera magistrale che utilizza le armi dell'andersonianesimo più puro allo scopo paradossale di abbattere un modo di fare cinema nato con Anderson stesso a metà anni Novanta. Come si cambia / per non morire? No. Il principio-guida è quello di sempre: l'innovazione, anche a costo di uccidere il proprio sé cinematografico (e, non a caso, il personaggio di Bill Murray, attore feticcio, muore). Una lectio magistralis su coerenza artistica, innovazione e presa di coscienza del tempo che passa.
 

Owen Wilson, Tilda Swinton, Elisabeth Moss, Fisher Stevens, Griffin Dunne

The French Dispatch (2020): Owen Wilson, Tilda Swinton, Elisabeth Moss, Fisher Stevens, Griffin Dunne

 

 
Insomma, The French Dispatch è un'opera testamentaria di stratosferico spessore destinata, come da tradizione andersoniana, a dividere (molti sosterranno che non porti da nessuna parte), ma dall'afflato poetico personale immenso: pietra miliare straordinaria, per tematiche, riflessioni metacinematografiche e stile, di uno dei percorsi artistici più belli degli ultimi decenni. 
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