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The French Dispatch

Regia di Wes Anderson vedi scheda film

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La recensione su The French Dispatch

di EightAndHalf
4 stelle

All'inizio di The French Dispatch una giornalista dice all'editor-in-chief della rivista che un articolo è pieno di errori di ortografia. Bill Murray, l'editor-in-chief, dichiara che la maggior parte sono volontari. E' una delle tante dichiarazioni di intenti di Wes Anderson, che lancia numerosissimi ammiccamenti per spiegare a chiunque come si racconta una storia. I suoi errori di ortografia sono i jump-cut, i brevissimi tableaux vivants che durano pochi secondi e si interrompono, un campo-controcampo sbagliato per il bene dell'inquadratura, tutta una filosofia fumettistica che rispetto al solito dà l'impressione di riempirsi di pretesti. Wes Anderson ha sempre saputo coniugare il carattere straniante della sua messa in scena con la profondità di un racconto, perché ancor prima che esteta formalista Wes Anderson è - è stato - un narratore. Le depressioni e i taboo dei Tenenbaum, l'adolescenza in Moonrise Kingdom, il razzismo nell'Isola dei cani e la guerra mondiale in Grand Budapest Hotel: un regista quasi classico, che ha sempre montato i suoi film come uno scrittore monterebbe un periodo torrentizio con meno punteggiatura possibile, ma con un rigoroso cuore pulsante. 

The French Dispatch dà la stessa sensazione di fiume in piena, ma senza l'aggancio "interno" del regista classico: solo una serie di vignette che parlano a loro stesse, nonostante Jeffrey Wright  declami a gran voce che "l'autoriflessione degli autori va ridotta alla sfera privata", anche se poi aggiunge "a volte", per ammiccare per l'ennesima volta, senza timore che la palpebra si stanchi. Il film è così, pieno di ideine enigmistiche per i solutori più che abili, e per gli altri stanno i piani-sequenza che passano di scenario in scenario, a svelare un carattere ludico di messa in scena, salvo che "ludico" viene sempre confuso con "ridicolo". 

Alla fine sembra un girotondo di aneddoti in cui Wes Anderson parla di quello che si è sempre detto di lui, forse nel tentativo di svelare con un complesso metatesto di scatole cinesi che anche così si può fare satira, come la fa - all'acqua di rose - della cultura sessantottina, dei vezzi ideologici europei (da che pulpito), delle spaccature sociali, dell'arte contemporanea, di se stesso. Una satira meta-satira che tanto non si prende sul serio quindi gli si può dir poco. 

Alla fine solo per dire, col lezioso immancabile commento musicale di Desplat, quant'è bello raccontare le storie e quanto sia importante, forse anche quant'era bello e importante, in uno slancio nostalgico tradito da un ritmo che è quello dello scrollio di uno smart-phone o di un videogioco a scorrimento.

Un pasticcio abbastanza indigeribile e con un ritmo confusissimo, che vede probabilmente per la prima volta (salvo rare eccezioni) Wes Anderson come reale regista superficiale.

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