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Il colore del dolore

Regia di Francesco Benigno vedi scheda film

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La recensione su Il colore del dolore

di Spaggy
8 stelle

Bella sorpresa: seppur opera prima, rivela lo sguardo attento di Benigno che ha saputo far tesoro della sua esperienza di vita prima e di quella sui set dopo realizzando un lungometraggio che rende prima di tutto omaggio alla resilienza umana, a quella forza che permette di rialzarsi anche quando le cadute sembrano definitive.

 

Sul finire degli anni Ottanta il regista Marco Risi arriva a Palermo per selezionare i ragazzi che comporranno il cast di Mery per sempre, titolo che diventerà il simbolo della sua filmografia e che, sociologicamente, offrirà un ritratto senza sconti dei ragazzi di strada del capoluogo siciliano. Ai provini, un po’ per caso, si presenta l’allora ventiduenne Francesco Benigno: accompagna un amico e, seppur disinteressato, si sottopone al provino con il regista dopo essere stato notato tra tanti altri.

 

Poiché l’audizione di Benigno non era prevista, Risi ha bisogno di capire prima di tutto chi è il ragazzo, quali sono le sue origini e quale bagaglio di esperienze si porta dietro. Sin dalla prima domanda, Francesco ripercorre a ritroso la sua vita, partendo da quando poco più che bambino, dodicesimo di tredici figli, è costretto insieme al fratello a separarsi dalla famiglia per frequentare vari collegi. Ed è durante la permanenza in uno di questi che emerge il carattere indomito del ragazzino: di fronte a un episodio di bullismo che ha per vittima un compagno di stanza, Francesco si schiera in prima linea per difenderlo.

 

Non curante delle conseguenze del suo gesto, che gli costa ovviamente l’espulsione dall’istituto, Francesco mostra la sua indole ribelle che, in nome di una personale visione della giustizia, non tollera soprusi e violenze. Del resto, Francesco la violenza la conosce bene: in casa, all’amore incommensurabile della madre, che come tante donne siciliane stoicamente sopporta nel silenzio, fa eco il carattere irascibile e talvolta violento del padre. Quella del genitore è una figura piuttosto ambigua: da un lato, il padre sembra il migliore del mondo, amorevole con la famiglia e attento alle esigenze della consorte; dall’altro lato, invece, mostra il suo aspetto peggiore, quello che ha nelle mani e nelle parole la sua arma peggiore. Giocatore d’azzardo, riversa i suoi umori, le vincite e le perdite, sulla famiglia, facendo pagare le conseguenze alla moglie in primis e ai figli dopo. A non piegarsi a tale clima è Francesco, che non perde occasione di alzare la testa e reagire: la situazione, già delicata, si complica con la morte della madre, portata via da un violento tumore all’intestino.

 

Senza più colei che con il suo manto tutto protegge, Francesco si trasforma lentamente in un ragazzo di strada. Non si contano le volte in cui scappa di casa, costringendo la polizia a intervenire diverse volte per riportarlo sotto il controllo del sempre più anaffettivo genitore. Francesco dorme in giacigli di fortuna, incassa ogni volta i no del fratello maggiore (che, per rispetto del padre, si rifiuta di accoglierlo nella sua abitazione) e impara a sopravvivere come può. Nessuno può condannare ciò che lo porta a macchiarsi di piccoli espedienti criminali: un furto alla Standa, una borsa trafugata o una rapina a un bar con una pistola di plastica. La vita di strada non è facile, è fatta di Lucignoli e di giacigli di fortuna, di notti senza cibo e di qualche giorno al Malaspina, il carcere minorile di Palermo. Il capoluogo siciliano, impegnato tra il finire degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta in altre faccende, quasi non vede ciò che accade ai suoi giovani e li lascia in balia di loro stessi.

 

C’è però chi le onde riesce a cavalcarle e chi invece a esse soccombe. Grazie a qualche incontro fortunato, Francesco trova la possibilità di redimersi. Come accade nelle belle fiabe nella sua vita entrano una principessa e una fata turchina, una coetanea di cui si innamora e un’assistente sociale che si prodiga per garantirgli un futuro migliore, contro tutto e contro tutti. Ed è così che, grazie alla comunità di recupero Casa Amica, Francesco guarda al domani con occhi diversi: ritrova la voglia di andare oltre il qui ed ora, riprende il sentiero della legalità e saluta un passato che, pur appartenendogli, rimarrà da quel momento in poi soltanto un lontano ricordo.

Cettina Benigno, Francesco Benigno

Il colore del dolore (2020): Cettina Benigno, Francesco Benigno

 

Dopo anni di intensa attività come attore, Francesco Benigno esordisce alla regia con Il colore del dolore, opera autobiografica in cui racconta i primi venti anni della sua vita. L’argomento era stato già al centro di Benigno, cortometraggio che nel 2008 si era distinto come miglior cortometraggio al Giffoni Film Festival, ricevendo il Grifone d’argento. La scelta di ripercorrere il proprio percorso per Benigno diviene occasione per mettere in piedi un moderno romanzo di formazione in cui il protagonista attraverso pericoli, insidie, ostacoli e prove da superare, trova se stesso divenendo uomo. Non fa sconto alcuno la sua narrazione: in maniera viscerale, segue le tappe della sua crescita senza tralasciare i momenti peggiori o le dinamiche familiari, che spesso tengono a essere sepolte come polvere sotto un tappeto.

 

Nel raccontare di una Palermo allora (come ora) bellissima ma disattenta agli uomini del domani, Benigno si concede il lusso di girare moltissime sequenze in esterna compiendo un vero miracolo. Grazie a espedienti di regia, riprese sapientemente angolate e un occhio più che attento ai particolari, il tempo sembra essersi fermato: Benigno ci riporta a una città che il maestro Damiano Damiani aveva sapientemente fotografato in Pizza Connection e che non necessariamente deve fare i conti con la mafia o con la criminalità organizzata. Sebbene in Mery per sempre lo stesso Benigno si trovava in una delle scene chiave a urlare “Mafia, mafia, mafia”, in Il colore del dolore la criminalità organizzata rimane fuori ed è un bene: oltre al rischio di cadere nei cliché del racconto, si sarebbe traviata la realtà delle cose. La piccola criminalità, presente nel racconto, nulla aveva a che fare con la rete dei grandi orchestratori di crimini: a portare ai piccoli reati, al furto di un portafogli o a quello di un paio di camicie da rivendere a un ricettatore, non era la voglia di incassare ma la fame… quella fame fisica che nell’angolo di un marciapiedi ti contorce le budella per un panino, quella fame psicologica che ti fa venir voglia di prendere a morsi la vita per riscattarti da un passato a cui non vuoi appartenere e da cui vuoi discostarti. Tutto ciò che Francesco, il protagonista del film, vuole è riscattarsi, lasciarsi dietro sé un padre e un’esistenza che lo hanno messo con le spalle al muro. La forza che mette nell’alzare la testa è uguale a quella di chi con le unghie tenta di aggrapparsi anche a un lembo di lenzuolo per salvarsi dal naufragio.

 

Adolescente in pena, mai ribelle per gioco, Francesco impara che la più grande delle lezioni della vita viene dall’elaborazione del dolore. La perdita della madre è qualcosa che segna un punto di svolta, l’inizio di una parabola negativa a cui solo altre figure femminili sapranno cambiare verso e direzione. Non è un caso che il colore del dolore da nero si trasformi in verde quando Francesco si innamora della donna che lo renderà padre per la prima volta o incontri l’assistente sociale che lo condurrà verso la comunità di recupero. Entrambi i casi rivelano come il calore di una casa sia tutto ciò che a Francesco è venuto a mancare. Come moderno Oliver Twist, ha bisogno di essere preso per mano e accompagnato. Chi è l’uomo senza una guida o un modello da seguire?

Matteo Ameduri, Andrea Alfano

Il colore del dolore (2020): Matteo Ameduri, Andrea Alfano

 

Cinematograficamente, Il colore del dolore compie un’impresa quasi anomala nel panorama italiano. Si prefigura infatti come una sorta di prequel di Mery per sempre, raccontando non cosa ci sta dietro la genesi di un personaggio ma la realtà che si cela dietro colui che quel personaggio lo interpreta. Si tratta quindi di un’operazione metacinematografica che sposta continuamente l’ago tra persona e personaggio mostrando cosa ha portato Francesco a divenire Natale per Marco Risi per poi trasformarsi nel Benigno di oggi. Si ha come l’impressione che con il suo film l’attore e regista siciliano voglia finalmente far chiarezza sulla sua stessa immagine: siamo abituati a vederlo spesso alle prese con ruoli spigolosi dimenticando come in realtà dietro un attore si celi un uomo con il suo vissuto, un vissuto che Benigno non lesina a mettere in piazza senza il timore del giudizio. Gli va reso merito per non essersi nascosto dietro un dito, per essersi spogliato delle sovrastrutture che lo hanno reso popolare per mostrarsi nudo, fragile e, talvolta, indifeso. Ecco perché non dovremmo mai fidarci delle apparenze e guardare oltre: ognuno di noi cela un dolore che non conosciamo, piccolo o grande che sia. Benigno ha avuto la forza di raccontarlo. Così come ha avuto il desiderio di ricordare a tutti quale grande peso giochino le istituzioni nella vita di un individuo, la famiglia ma anche lo Stato o la scuola (con un omaggio dichiaratamente manifesto al film di Risi che lo ha lanciato), chiamate ad accoglierci e non a respingerci.

 

Per il cast principale, Benigno si affida a un manipolo di giovani attori senza nessuna esperienza alle spalle. Non sono professionisti ma hanno negli occhi la stessa fame di vita che caratterizza il Francesco del film. Su tutti, vale la pena segnalare il grandissimo lavoro svolto da Andrea Lo Vecchio, giovane che interpreta Francesco dall’adolescenza in poi: lo sguardo magnetico e il volto ricordano quello del giovanissimo Enrico Lo Verso (oltre che Benigno stesso), una fisionomia che sarebbe piaciuta di certo a Pier Paolo Pasolini (è a tutti gli effetti un suo ragazzo di strada). Diverse sono invece gli artisti siciliani che si prestano anche a piccoli camei, dal navigato Ernesto Maria Ponte ai bravi Valentina Magazzù (molto conosciuta nel circuito delle emittenti televisive palermitane) e Vincenzo Crivello, passando per lo stesso Benigno, che riserva per sé il ruolo del padre. Da un punto vista tecnico si sottolinea il grande apporto dato alla pellicola dalla fotografia di Fabio Lanciotti e dalla colonna sonora di Savio Riccardi, in grado con le sue sonorità arabo-normanne (composte appositamente per il film e in maniera gratuita) di restituire la Palermo che fu e il pathos che il racconto comporta.

Francesco Benigno, Alfredo Li Bassi, Tony Sperandeo

Mery per sempre (1989): Francesco Benigno, Alfredo Li Bassi, Tony Sperandeo

Andrea Lo Vecchio

Il colore del dolore (2020): Andrea Lo Vecchio

 

Il colore del dolore è una bella sorpresa. Seppur opera prima, rivela lo sguardo attento di Benigno che ha saputo far tesoro della sua esperienza di vita prima e di quella sui set dopo realizzando un lungometraggio che rende prima di tutto omaggio alla resilienza umana, a quella forza che permette di rialzarsi anche quando le cadute sembrano definitive. Ma rivela anche quanta passione e spesso solidarietà entri in gioco tra le maestranze locali, pronte a non far mancare il loro supporto anche nei momenti produttivi più difficili o complicati. Prodotto dall’Associazione Culturale Mery per sempre che, presieduta dallo stesso Benigno, si occupa di giovani disagiati (e ha già prodotto il mediometraggio Scintilla), Il colore del dolore è stato girato in varie località siciliane, molte delle quali teatro reale degli eventi narrati. Così come la casa dei Benigno è la vera casa in cui l’attore e regista è cresciuto, anche il collegio di suore e la sede della cooperativa Casa Amica (con sede a Favara, in provincia di Agrigento, si occupa oggi di accoglienza agli extracomunitari ma in passato, diretta da Paolo Di Caro che recita nel film nei panni di se stesso, accoglieva giovani a cui regalare un nuovo futuro) hanno aperto le loro porte per ospitare il set.

 

L’uscita nelle sale di Il colore del dolore è prevista per il prossimo 12 marzo. La data, però, potrebbe subire qualche slittamento a causa del ritardo del contributo che la Sicilia Film Commission dovrebbe elargire, un contributo fondamentale per curare gli ultimi aspetti della postproduzione e della distribuzione. Che la burocrazia non fermi ciò che il cuore ha portato avanti.

Piccola nota a margine. 

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Il colore del dolore (2020): Trailer ufficiale

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