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Black Bear

Regia di Lawrence Michael Levine vedi scheda film

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La recensione su Black Bear

di mck
8 stelle

Il gioco a cui abbiamo giocato.

 

 

Ultimo FoxTrot sulle Adirondack.

La nebbia avvolge le sponde del lago.
Lei chiude gli occhi sul molo, e la bruma
- mentre osserva sé stessa nell’atto di scrivere -
scompare.
E ciò che resta e rimane, apparendo, è
- ammorbidite con un telo diffusore
le ombre in piena luce del Sole -
il film.
Con un orso alla soglia.

Lost Highway, Eyes Wide Shut, Queen of Earth.

 


“Ricordi com’era all’inizio? Prima di tutto questo? Ricordi? Prima dei film? Eravamo così felici. Voglio tornare a quei giorni. Voglio solo essere di nuovo una persona normale. Pensi che potremmo? Pensi che potremmo tornare ad essere normali?”

Quando Allison parla di normalità non la contrappone al divismo glam, allo “star” system, al denaro, al benessere, all’agiatezza, ma al fatto che il Cinema (la writers' room, il set, la cabina di montaggio), se vissuto in maniera totale, può essere un’ininterrotta e non voluta seduta di psicoanalisi di coppia: la messa in scena del sé… e di quel che non si sarebbe mai pensato e non si avrebbe mai avuto l’occasione di essere.



“How does it feel? Allison, how does it feel? Tell me. Just fucking use this. Just fucking use it. We got one more shot.”

Da questo PdV “Black Bear”, l’opera quarta dell’attore, sceneggiatore e regista mumblecore (di 2ª generazione) Lawrence Michael Levine (classe 1976, autore di “Territory”, “Gabi on the Roof in July” e “Wild Canaries”) “e” Sophia Takal

 

{qui off-screen/set/monitor (ma non off-credits: il film le è dedicato) e off-script [come non, invece - con/per il compagno, altri registi/attori (Joe Swanberg e Kate Lyn Sheil) e sé stessa -, in “Gabi on the Roof in July”, “Green”, “the Zone”, “All the Light in the Sky”, “Wild Canaries”, “Always Shine” e “Black Christmas”], ma co-produttrice, tra gli altri, assieme al regista e alla protagonista principale & “sua” alter ego Aubrey Plaza},

 

da lui interamente scritta, è tanto contrapponibile quanto accostabile al “Marriage Story” di Noah Baumbach (“e” - assenza, più acuta presenza - Greta Gerwig).

 


Probabilmente la prestazione più impressionante (“Parks and Recreation”, “Safety Non Guaranteed”, “Life After Beth”, “Portlandia”, “Ned Rifle”, “Addicted to Fresno”, “the Driftless Area”, “Joshy”, “Legion”, “the Little Hours”, “Ingrid Goes West”, “An Evening with Beverly Luff Linn”, “Happiest Season”) della sempre eccezionale Aubrey Plaza, che raggiunge l’acme nel sottofinale del “Facciamone un’altra” durante le riprese del film nel film nella sceneggiatura nel film.


Christopher Abbott (“Martha Marcy May Marlene”, “Girls”, “A Most Violent Year”, “James White”, “It Comes at Night”, “Vox Lux”, “Catch-22”, “Possessor”, “the World to Come”) e Sarah Gadon (“A Dangerous Method”, “Antiviral”, “Cosmopolis”, “Enemy”, “Maps to the Stars”, “22/11/’63”, “Alias Grace”, “True Detective - 3”) sono i suoi eccellenti compagni di viaggio, ma tutto il resto del cast è affiatato e complementare.

Ottimo tutto il comparto tecnico-artistico: la fotografia di Robert Leitzell, il montaggio di Matthew L. Weiss e le musiche di Giulio Carmassi e Bryan Scary. Cartelli e titoli di Teddy Blanks / CHIPS.
Prodotto da Tandem, Oakhurst, Blue Creek, Poductivity Media e Radiant, è stato girato nell’estate del 2019 e presentato al Sundance all’inizio del 2020 per poi essere distribuito alla fine dello stesso anno nei cinema statunitensi e canadesi da Momentum Pictures e in digitale streaming e on demand da diverse piattaforme.

 


Film dicotomico e polarizzato (o tripartito - ma sempre intercomunicante - se si considerano prologo ed epilogo distinti dal resto della narrazione), la cui seconda parte è l’elaborazione del pregresso fuori campo - al quale non abbiamo assistito - antecedente alla prima parte, “Black Bear” è un’opera liminale, stratificata, diramante, complessa per struttura (particolare) e profonda per contenuto (universale), che continua a lavorare anche dopo che si sono riaccese le metaforiche luci in sala. (Si potrebbe azzardare un confronto - in ambito "metacinematografia e bestie feroci", e non solo - con il "Silver Bullets" di Joe Swanberg di un decennio prima.)

“That was some game we played.”

 

Scrive.

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