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Ghostbusters: Legacy

Regia di Jason Reitman vedi scheda film

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La recensione su Ghostbusters: Legacy

di mck
7 stelle

Le aspettative erano ben alt(r)e: il film si dimostra una piccola delusione, se pur piacevole e assolutamente consigliato a grandi, piccini e gozeriani (Olivia Wilde - “Are you a god?” - fammi schiavo).

 

 

Inizia bene, “GhostBusters: AfterLife”, col fantasmino slimer-casperoso che s’insedia all’interno del segnale di divieto di accesso, rifondando (rinverdendo/reimbiancando) il brand, e prosegue meglio con una bella ambientazione nello sprofondo oklahomico e 4 validi attori protagonisti in campo: Carrie Coon - “the LeftOvers”, “Fargo 3” - è una garanzia di professionalità, Paul Rudd - “Prince Avalanche”, “Wet Hot American Summer” - ha sempre quella faccia giusta, Finn Wolfhard - “Stranger Things”, “It: Chapter Two” - si muove bene in quello che per adesso è il suo territorio, e Mckenna Grace - “Chilling Adventures of Sabrina” (copia conforme di Kiernan Shipka x 1 ep.), “Troop Zero”, “the HandMaid’s Tale 4” - conferma ad ogni passo di saper esprimere e dimostrare un talento innato (canta anche la - bruttina forte - canzone sui titoli di coda). E poi… il primo flusso protonico sparato!

 


Ivan Reitman --{da “MeatBalls” e “Stripes” - in zona National Lampoon’s e in compagnia del sodale Harold Ramis (“Groundhog Day”, “Analyze This”), che di per sé rimase un onesto, sano e convinto cazzone sino alla fine, e mi riferisco a “Year One” - all’epitome di quella che si può definire [rappresentata dal cinema tutto di, da una parte, Robert Zemeckis e Ron Howard e, dall’altra, di James L. Brooks, Nora Ephron, Nancy Meyers e Garry & Penny Marshall [più alcuni accenni di Mike Nichols (“Working Girl”, Primary Colors”), Rob Reiner (“the American President”), Robert Redford ed altri] come “epoca cinematografica clintoniana”, che iniziò prima dell’insediamento del marito di Hillary Rodham alla Casa Bianca e terminò dopo il passaggio di consegne e il cambio di residenza (“Legal Eagles”, “Twins”, “Evolution”), non rimanendo stretta fra i due Bush, senior e junior}-- passa il testimone al figlio Jason (“Labor Day”, “Tully”), il quale, una cosa è certa, licenzia un film migliore del reboot (non appartenente alla stessa linea spazio-temporale e allo stesso universo) di Paul Feig del 2016 (che vedeva comunque Reitman padre e Dan Aykroyd coinvolti nella produzione), e anche se questo non può essere interpretabile come un complimento, “GhostBusters: AfterLife” rimane un prodotto quantomeno parzialmente degno della memoria del dittico originale: e se i paragoni sono o improponibili [nel male, coi capostipiti, ché tra i primi e il secondo (quarto) vi passa la differenza che intercorre tra 1-800-ghostbusters e 555-ghostbusters] o inutili [nel bene, con l’epigono (terzo) di un lustro fa] e le aspettative erano ben alt(r)e, il film, pur dimostrandosi una piccola delusione, a conti fatti è un passatempo piacevole e assolutamente consigliato a grandi, piccini e gozeriani (Olivia Wilde - “Are you a god?” - fammi schiavo).


La sceneggiatura è dello stesso Jason Reitman, co-scritta con - e questo è forse il vero tallone d'Achille del film - Gil Kenan.
Fotografia: Eric Steelberg. Montaggio: Dana E. Glauberman & Nathan Orloff. Musiche: Rob Simonsen. Scenografie: François Audouy.
Quasi solo un cameo per Bokeem Woodbine ("Fargo 2", "Queen & Slim").


Per quanto riguarda la storica squadra, i tre vecchietti in azione (ma Jason Reitman & Co. non sono Clint Eastwood) rappresentano la parte che forse funziona meno, in rapporto: se Bill Murray (Peter Venkman) ha più di 70 anni (e non ci si crede, la cosa non è giusta, non può essere, perché signore perché) e il proton pack lo appesantisce un po’ (però il duetto “elettrico” con Sigourney Weaver (Dana) merita di per sé), Dan Aykroyd (Ray) - cosceneggiatore con Reitman della coppia di film alla base della mitopoiesi - ed Ernie Hudson (Winston) la “prendono meglio”, mentre Harold Ramis, deceduto dopo una lunga malattia più di un lustro prima delle riprese (e dell’idea stessa di farlo, finalmente, il film), paradossalmente risulta il più “presente” (d’altronde in un film di fantasmi… la morte non è un limite), anche se per la maggior parte del tempo non si vede: per le parti in cui è in campo, “fisicamente” presente -[ed è evidente che se la voce umana - tra Cocteau, Rossellini e Almodóvar - non è più una delle cose maggiormente difficoltose da riprodurre fedelmente (modulazione, intensità, timbro, accento) rimane però a frenarne l'utilizzo dal PdV sintetico/artificiale un tabù etico-morale di diverso genere rispetto al simulacro dell'immagine (l'apparenza, l'aspetto, la figura, l'iconografia), presumibilmente più “profondo”, per ragioni facilmente intuibili da chiunque attraverso la propria esperienza personale]-, è stato parzialmente ricostruito sovraimprimendone digitalmente le fattezze - un mix di immagini di repertorio e di arte grafica computerizzata - all’impronte/silouette motioncapturizzate di Bob Gunton (“il fantasma della fattoria”, quando ancora “non” sappiamo chi esso sia) e dello stesso Ivan Reitman live on set (la squadra di Ron Binion si occupa invece di muovere per conto di Egon Spengler gli oggetti del suo laboratorio nel tentativo di comunicare con la figlia e la nipotina, che, per chiudere il cerchio, ovv.te somiglia moltissimo al personaggio del nonno). Infine, Janine: Annie Potts (“Young Sheldon”) ricrea forse, soprattutto all’inizio, ma anche alla fine, l’effetto nostalgia migliore.

 


Le aspettative erano ben alt(r)e: il film si dimostra una piccola delusione, se pur piacevole e assolutamente consigliato a grandi, piccini e gozeriani (Olivia Wilde - “Are you a god?” - fammi schiavo).

 


* * * ¼/½ - 6.75      

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