Regia di Jean-Pierre Limosin vedi scheda film
Se si riescono a superare i primi dieci minuti di un doppiaggio che disperatamente corre dietro ai toni alti di una modulazione di voci che, per ovvie ragioni, è distante mille miglia dalle tradizionali espressioni occidentali, “Tokyo Eyes” può risultare un’esperienza affascinante. Attraverso la storia di un presunto serial killer denominato “quattrocchi” che, dal quartiere giovanilistico di Shimo Kita si allontana ogni giorno per far danni soprattutto a se stesso (spara, senza mai colpirli, a ignare vittime infilandosi un paio di occhiali), Limosin riesce a rappresentare una realtà complessa e incrociata come quella di una fetta poco conosciuta di Tokyo, amalgamando con stile anomalo scene di finzione con sequenze rubate e documentarie, suoni diversissimi tra loro e squarci che rappresentano a dovere una sperimentazione assai elaborata. Sperimentazione che sgretola, altresì, i codici del cinema di genere (il film potrebbe passare per un thriller, seppure sui generis), come in un gioco del cinema sofisticatissimo dove non si ha paura di frantumare il peso culturale di un’opera che si propone come modello alternativo al mondo reale. Uno sguardo insolito a caccia di insoliti sguardi.
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