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Kagemusha - L'ombra del guerriero

Regia di Akira Kurosawa vedi scheda film

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La recensione su Kagemusha - L'ombra del guerriero

di alan smithee
8 stelle

Kagemusha ovvero: essere e apparire. Sovvenzionato e promosso da due produttori esecutivi d'eccezione, del calibro di Francis Ford Coppola e George Lucas, il film di Akira Kurosawa, vincitore ex aequo della Palma d’Oro nel 1980 (assieme a All that jazz di Bob Fosse), segna il ritorno del maestro giapponese più noto nella storia del cinema assieme ad Ozu, ad una riflessione sul binomio contrastante rappresentato da finzione e realtà, circostanza che già trent’anni prima lo aveva visto occupato con uno dei suoi massimi capolavori, ovvero Rashomon.

Qui l’espediente narrativo è meno sofisticato del precedente celeberrimo caso (il film Rashomon era improntato a ricercare la verità dei fatti, travisata, reinterpretata, raccontata in modi diversi da alcuni testimoni o presunti tali), ma altrettanto coinvolgente: un ladro di bassa lega viene istruito per assumere le veci uno dei tre signori della guerra che si contendono il ruolo di conquistatore della città di Kyoto nonché aspirante fautore della auspicata unificazione del Giappone feudale in un unico regno, nel periodo contrastato da sanguinose ed infinite guerre intestine in cui visse l’arcipelago nipponico attorno al 1500.

Quando infatti l’anziano Shingen Takeda, viene ferito da un cecchino mentre sta come ogni sera in ascolto della musica che proviene da un abile suonatore della fazione nemica, mentre si trova nella sua postazione mentre con le truppe è in attesa di conquistare una roccaforte strategica, egli, persuaso di non vivere a lungo, confida al figlio e ai suoi generali di nascondere per almeno tre anni la sua probabile imminente morte, utilizzando come suo sostituto facciale  il suo sosia, un ladro appunto, salvato anni prima dalla morte proprio perché un giorno, se necessario, avesse potuto adempiere a tale fondamentale strategico ruolo di mera facciata.

Nel ruolo di comando, il “kagemusha” fatica ad adattarsi, a cancellare quell’indole propensa alla ruberia e all’inganno subdolo che da sempre lo animano e lo rendono schiavo del vizio anche ora che tutto è a sua disposizione affinché egli si limiti a recitare la parte assegnata, dissuadendo il nemico e favorendo la successione dinastica ereditaria prevista.

Questa finzione dura per oltre un triennio, fino a quando un giorno, giocando col suo (falso) nipotino, l’uomo viene disarcionato da cavallo e così facendo, soccorso dalle sue concubine, queste si accorgono che all’uomo è sparita la cicatrice di guerra che l’uomo da anni portava evidente sulla schiena.

Il sosia verrà dunque cacciato malamente con in cambio una nemmeno abbondante somma di denaro, ma a quel punto il figlio del capo defunto, balzato al comando con l’impeto di un giovane ancora inesperto, viene spinto ad attaccare un nemico che nel frattempo si è fortificato e sa resistere ad un simile attacco.

La disputa sarà un bagno di sangue, che sancirà oltretutto la fine del clan dei Takeda, ma anche, a maggior ragione, quella del sosia che, unitosi come un folle automa e animato da un incongruo scatto di orgoglio, ai ranghi del suo ex esercito nel percorso rovinoso della sanguinosa battaglia, si farà uccidere senza apportare alcun giovamento alla sua parte.

Il tema del sosia di estrazione e rango completamente opposti rispetto alla figura trainante e caratterialmente trascinante del capo, lascia trapelare affascinanti considerazioni sull’essere e sull’apparire, sull’indole che guida e governa il nostro modo di comportarci, sulle consuetudini e le circostanze che stanno alla base di certi ruoli cardine nella società, alimentando pure interessanti considerazioni sull’adattabilità che ci rende, nel bisogno, particolarmente duttili al cambiamento.

Kagemusha rimane pertanto una tappa fondamentale nella cinematografia del grande regista nipponico, giunto qui alle soglie della vecchiaia e della piena maturazione artistica.

Un’opera che tuttavia, nonostante la manifesta opulenza delle scenografie e delle ammalianti ricostruzioni storiche, abbonda questa volta di scenari ricostruiti in studio e quindi tendenzialmente soggetti a risultare un po’ asfittici, irreali, bidimensionali, e a comunicare una sensazione di soffocamento che ben si discosta dai principali altri capolavori del regista, dominati dalla centralità delle scene di massa e dalle ambientazioni a cielo aperto, tra la boscaglia, in mezzo alla natura rigogliosa.

Qui al contrario domina l’aspetto cromatico, la scenografia sulla sostanza ed il dinamismo dell’azione: il colore acceso, le scenografie suggestive, che tuttavia, proprio perché frutto di pur abili ed eccentriche ricostruzioni, mancano di quella tridimensionalità che rendeva uniche certe scene corali e marziali di battaglia dalle magistrali coordinazioni.

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