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L'amore in città

Regia di Michelangelo Antonioni, Federico Fellini, Alberto Lattuada, Carlo Lizzani, Francesco Maselli, Dino Risi, Cesare Zavattini vedi scheda film

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La recensione su L'amore in città

di jonas
6 stelle

Un prologo, con una serie di brevi scenette fra innamorati (o ex tali, o potenziali tali...) colte al volo per le strade di Roma in vari momenti della giornata, e sei episodi. 1 (Lizzani) Dalle interviste a varie prostitute emergono lo squallore delle loro vite, le loro abitudini di lavoro, il loro passato, le loro aspirazioni. 2 (Antonioni) Alcune donne, che hanno tentato il suicidio per amore, rievocano le loro esperienze. 3 (Risi) Una sera in un dancing di periferia: approcci ora timidi ora audaci. [NB Il database del sito, i dizionari di Morandini e Mereghetti e persino IMDb riportano un titolo sbagliato: quello esatto è Paradiso per 3 ore, cioè dalle 5 alle 8, come viene precisato all’inizio dell’episodio] 4 (Fellini) Un giornalista, per lavoro, entra in contatto con un’agenzia matrimoniale e conosce così una giovane poverissima disposta a sposare un uomo affetto da licantropia. 5 (Maselli) Una ragazza madre siciliana, cacciata dalla famiglia e rimasta senza lavoro, affida il bambino a una balia ma è costretta a riprenderselo; poi lo abbandona in un parco, lo recupera di nuovo ma viene processata. 6 (Lattuada) Incontri casuali per via: donne sfuggenti, uomini occhieggianti. Il neorealismo si irrigidisce e si sclerotizza in questo progetto ambizioso (destinato a diventare la prima puntata di una “rivista cinematografica”, poi non proseguita per lo scarso successo di pubblico) che mira a realizzare l’estetica zavattiniana del pedinamento della realtà: troppo sistematico nelle intenzioni, troppo slegato nella realizzazione. L’impianto da inchiesta va via via sfumandosi: i primi due episodi sono rigidamente strutturati a domande e risposte (con la cinepresa che inquadra sempre le intervistate, mentre gli intervistatori restano invisibili), i tre successivi hanno solo una voce narrante, l’ultimo è quasi privo di dialoghi ed è il più leggero, con un finale malinconicamente sospeso; toccante anche quello di Fellini, mentre Lizzani e Maselli eccedono in patetismo (anche se va loro riconosciuto il coraggio di trattare argomenti scomodi, soprattutto per l’epoca). Ma ciò che fa più tenerezza, come in quasi tutte le commedie italiane degli anni ’50, è il panorama umano: la generazione uscita dalla guerra, pur costretta a misurarsi con le angustie della vita quotidiana, conserva l’ingenua speranza in un futuro migliore.

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