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Jallikattu

Regia di Lijo Jose Pellissery vedi scheda film

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La recensione su Jallikattu

di ROTOTOM
8 stelle

Quando scappa, scappa ( il bufalo). E il villaggio si scanna per riprenderselo. In barba ad ogni tradizione, contravvenendo a qualsiasi imposizione etnico-religiosa-alimentare, l'ottuso bovino diventa artefice della bizzarra trasformazione dell'uomo in bestia. Splendido.

locandina

Jallikattu (2019): locandina

 

Un intero villaggio attende il rituale sacrificio del bufalo da parte dell’esperto macellaio Kalan Varkey. Uccisione che è al contempo rituale mistico e fonte di approvvigionamento di preziosa carne fresca. Il bufalo eletto però, di fare la vittima sacrificale non ne ha voglia e contravvenendo agli ancestrali usi e costumi del remoto villaggio indiano, decide di fuggire nella giungla. La sua fuga semina lo scompiglio totale tra gli abitanti che sempre di più si accalcano nel folle inseguimento dell’animale ben deciso a non farsi prendere. Il caos che ne deriva libera i più bassi istinti degli inseguitori che tra mentalità tribale, vecchi conti da regolare, megalomania e oscenità varie, rivelano la loro natura bestiale.
 Tratto dal racconto Maoist di Hareesh.

 

Il Jallikattu è un evento tradizionale indiano legato ai riti della tauromachia durante il quale un toro viene liberato tra la folla e i partecipanti tentano di catturarlo aggrappandosi alle corna o alla gobba dell’animale.  Festa di origine Tamil, il jallikattu (conosciuto anche come sallikkattu o mañcuvirattu ) si svolge durante la celebrazione nel giorno del Mattu Pongal (festività legata al periodo del raccolto) nel mese di gennaio. Nonostante le proteste delle organizzazioni per i diritti degli animali e i conseguenti divieti alla pratica emessi da numerosi tribunali, il jallikattu è tuttora presente nella trazione indiana.
 Il cinema indiano, in modo particolare quello popolare, ha affrontato sovente il tema del jallikattu, mostrandolo sempre dalla secolare prospettiva di simbolo di mascolinità e conservazione di status sociale.


 Lijo Jose Pellissery, regista in prepotente ascesa artistica, ampiamente considerato uno degli autori più importanti e influenti del cinema indiano è portatore di uno stile molto personale, innovatore dal punto di vista registico e dotato di uno sguardo non convenzionale.
Jallikattu, il film che gli sta portando notorietà planetaria, è finora la summa del suo cinema irriverente e dinamico. Girato in lingua malayalam, il film prende a prestito la pratica del jallikattu svuotandolo però di ogni significato mistico e rituale per ricondurlo a un’allegoria della primordiale lotta tra l’uomo e la natura, tanto violenta quanto grottesca e iconoclasta, che conduce inevitabilmente al caos.
Pellissery imposta un racconto scandito da un ritmo forsennato a partire già dalla sequenza iniziale montata a orologeria, come se un countdown implacabile condannasse la comunità all’imminente esplosione di violenza causata dalla blasfema, cocciuta ritrosia del bufalo a rivestire il ruolo di vittima assegnatogli dalla tradizione. Un tradimento, uno sberleffo che i fragili compromessi paesani non riescono a contenere e che trasforma tutto il film in un bizzarro tsunami di follia tragicomica. La feroce trasformazione dell’uomo è servita, le faide erompono, la lingua s’impasta in un unico sottofondo di urla cacofoniche perdendo ogni riferimento umano. La massa brutale, ritratta nello sforzo della caccia, perde connotazione terrena per elevarsi a metafora della regressione a uno stato primordiale dove, svuotato di convenzioni, riti e mistica, l’uomo si rivela per ciò che è: una bestia.


Film di corpi, muscoli e denti digrignati, muggiti e urla, sangue e fango, Jallikattu è straordinario nel montaggio che non lascia scampo allo spettatore inglobato dal ritmo delle immagini, trasportato di peso nei territori paludosi dell’incubo, imprigionato in una giungla mai così plastica e viva nella sua connotazione di luogo dell’inconscio ove risiede latente l’atavica sostanza ferina dell’animo umano.
Jallikattu è un film corale senza un protagonista, così a corollario della storia del bufalo che fugge, si assiste a una serie di microstorie tra personaggi estemporanei che sfruttano il caos del momento per regolare i conti sospesi e liberare gli istinti repressi. La corsa a perdifiato del bovino, il suo strenuo rifiuto di sottomettersi alla volontà dell’uomo allontanandosi più lontano possibile – poiché molto, molto pericoloso – da una qualsiasi pretesa di sacralità, libera, in un surreale finale apocalittico l’essere umano dalla sua essenza divina.

Fango era, di fango ritornerà.

In selezione nel programma EstAsia - cinema d'Oriente in programma dal 14 al 27 giugno a Reggio Emilia.

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