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La leggenda del pianista sull'Oceano

Regia di Giuseppe Tornatore vedi scheda film

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La recensione su La leggenda del pianista sull'Oceano

di LorCio
8 stelle

Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia da raccontare e qualcuno a cui raccontarla. Poco importa se sia una favola, una leggenda, una storia realmente accaduta: l’importante è trasmettere qualcosa a quel qualcuno a cui hai deciso di raccontare la storia. Giuseppe Tornatore sa raccontare storie e riesce in un’impresa che in Italia quasi nessuno sa fare: le sa raccontare e le sa far crescere nello spettatore. C’è chi l’avvicina a Sergio Leone, e se entriamo nell’ottica che Sergio Leone non è stato il miglior regista di sempre (come molte giovani menti si ostinano a dire) possiamo accettare l’accostamento: come l’autore di C’era una volta in America (con cui La leggenda del pianista dell’oceano ha più di un punto in comune, dai colori della fotografia alle citazioni verbali e non – “Cos’hai fatto tutto questo tempo?), Tornatore sa creare un cinema larger than life, pieno di pregi e pieno di difetti che sembrano confondersi gli uni con gli altri, quel cinema popolare (sovrac)carico e potente: è indubbio che sia spesso didascalico in sede di sceneggiatura; è indubbio che sia ridondante e qua e là virtuosista in molti movimenti di macchina (il ballo del piano durante la tempesta ne è la prova più evidente); è indubbio che a volte le ambizioni fagocitino l’oggetto filmico. Tutto vero.

 

Eppure La leggenda del pianista sull’oceano è una sorta di film-saggio nel percorso dell’uomo di Bagheria che mette in luce molte caratteristiche che lo rendono pressappoco unico nel panorama cinematografico italiano e non. Artigiano delle emozioni filtrate attraverso uno schermo, ha creato il raro caso di un kolossal intimista che sa parlare ad un pubblico vastissimo (quello che ha letto il monologo Novecento di Alessandro Baricco da cui è tratto il film – i lettori di Baricco sono strani e difficilmente inquadrabili –, quello che ama i grandi film di una volta, quello filo-musicale, lo zoccolo duro di Tornatore) grazie all’insolita dimensione epico-fantastica del racconto (e infatti il film non è coincidente con un genere stabilito: è una commedia drammatica dolciamara con incursioni nel fantasy dell’anima), mosso da un presupposto dell’assurdo (un uomo che nasce, cresce e muore su una nave senza mai mettere piede fuori) ma che riesce a far dimenticare che tutto è mosso da un qualcosa di assurdo.

 

Romanzo di formazione e di sensazione in cui la struttura complessa si architetta tra un’unità principale e flashback narrativi (così come C’era una volta in America, che sembra quasi la bussola del regista), si pone dapprincipio come un classico anche grazie a personaggi costruiti seguendo un disegno quasi mitico (il pianista è di per sé un personaggio da romanzo in tutto e per tutto; l’amico trombettista fallito e malinconico; il fochista che alleva il bimbo e muore ridendo ai nomi dei cavalli; la figura della ragazza, figlia del contadino friulano…) e grazie ad una metafora di fondo quasi angosciante: è un film sull’isolamento consapevole degli spiriti puri governati dal sacro fuoco dell’arte che preferiscono essere nel luogo della loro non-vita (la nave) piuttosto che sopravvivere nel non-luogo della vita (il fuori). È quindi un film sulla paura del cambiamento e sulle sue conseguenze. La solitudine del numero primo (perché solo, distaccato dagli altri numeri e indivisibile) si evince perfettamente dalla struggente scena delle telefonate casuali, tentativo estremo di cercare un rapporto, un qualcuno con cui parlare.

 

Così come la si nota con la scoperta dell’amore, tappa cruciale del romanzo di formazione, vissuta sulle note dell’unica musica registrata e che poi fa da leitmotiv concreto ed astratto al contempo. E servendosi di un reparto tecnico di gran lusso (la fotografia viva e spenta, sporca e plastica di Lajos Koltai, le magniloquenti scenografie di Francesco Frigeri, Maurizio Millenotti ai costumi e il montaggio di Massimo Quaglia) ha pertanto un ruolo fondamentale la straordinaria partitura musicale del (lui per davvero) leggendario Ennio Morricone al meglio della forma, che si fa prepotentemente protagonista dell’opera senza farsi troppi problemi, insinuandosi in ogni angolo del film, e scavando prepotentemente nel vissuto dello spettatore incanalandosi energicamente nella mente. Un film dell’altro secolo, una poesia con più di un’affinità con il capolavoro di Peppuccio, Nuovo cinema Paradiso (il tema del ritorno, l’educazione sentimentale, la distruzione del luogo d’elezione): che poi, notate, la scena del duello con Jerry Rol Morton (fantastico numero di grande cinema con sorpresa finale) sta al Pianista come lo spostamento del cinema in piazza sta a Nuovo cinema Paradiso. Alla fine è sempre quello l’obiettivo di Tornatore: stupire. Ci riesce sempre.

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