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Boia, maschere e segreti: L'horror italiano degli anni Sessanta

Regia di Steve Della Casa vedi scheda film

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La recensione su Boia, maschere e segreti: L'horror italiano degli anni Sessanta

di Spaggy
8 stelle

 

Il cinema italiano degli anni Sessanta è una vera miniera. Proliferavano titoli, autori e generi, che ancora oggi nessuno si è fermato a studiare nella loro totalità. Qualcosa si sta muovendo, anche grazie alla rivalutazione che arriva dall’estero. Se Quentin Tarantino è il padre di coloro che hanno rivalutato i b-movies, Bertrand Tavernier può essere considerato senza paura di smentita il protettore dell’horror all’italiana: la sua preziosa testimonianza in Boia, maschere e segreti del critico cinematografico (nonché conduttore per Radiotre Rai di Hollywood Party) Steve Della Casa permette di capire quale e quanta importanza abbia avuto il genere all’estero.

Padri putativi dell’horror di quel periodo sono due registi che, all’apparenza simili, presentano profonde differenze: Riccardo Freda e Mario Bava. Entrambi artigiani del cinema, sul finire degli anni Cinquanta ebbero la brillante idea di seguire il solco tracciato dalla Hammer in Gran Bretagna (i cui horror, a basso costo, invadevano le sale di mezzo mondo e lanciavano volti iconici come quelli di Christopher Lee e Peter Cushing). Nacquero così I vampiri e La maschera del demonio, destinati nel tempo a veder crescere la loro fama e la loro fortuna, anche commerciale. Sonori flop all’uscita nelle sale, i due film rivelarono sin da subito la loro potenza e originalità: la sceneggiatura, ambientata in epoche lontane dal reale, permetteva al pubblico di evadere e di vedere altro rispetto ai racconti che quotidianamente imparava ad apprezzare in televisione. Freda e Bava condividevano la passione per il fantastico e l’orrore: il primo amava coniugarli in quello che i critici oggi definiscono fantastico neorealista mentre il secondo, esperto direttore della fotografia e amante degli effetti speciali, trovava la sua massima espressione in una messa in scena più pop e sensuale, in cui era difficile capire dove finiva il reale e cominciava il fantastico.

scena

Boia, maschere e segreti: L'horror italiano degli anni Sessanta (2019): scena

 

La sensualità e la perversione furono fattori preziosi per l’affermazione del genere. I sociologi di oggi sottolineano come la ragione sia insita nel legame tra la religione e gli Italiani: attratti dal peccato, amano vederlo sullo schermo in cerca di assoluzione. Senza vergogna, il cinema horror italiano del periodo passa in rassegna quelli che allora venivano considerati tabù: omosessualità maschile e femminile così come sadomasochismo e feticismo diventavano argomenti di facile lettura e indicizzazione, si mostravano le devianze e si punivano i comportamenti non corrispondenti a ciò che il buon catechismo impartiva. Nonostante ciò, esisteva un certo pudore che portava i registi a filmare due diverse versioni dello stesso film: una castigata per il mercato italiano e una “alla francese”, più spinta, per il mercato estero. Dopotutto, era l’esportazione a garantire ai produttori una rendita fino a quel momento inimmaginabile: le statistiche contano 40 pellicole horror prodotte, tutte piazzate all’estero. La Francia era la nazione che più apprezzava il genere ma anche la Germania, il Regno Unito o la Spagna, non erano da meno. L’esterofilia e la voglia di non farsi bistrattare dal pubblico di casa nostra portarono i cineasti a usare anche nomi stranieri. Fu così che ad esempio Riccardo Freda diventò per molti film Robert Hampton, causando una confusione che paradossalmente ancora oggi esiste sia a livello enciclopedico sia a livello critico. Dall’estero, si importarono invece gli attori: Lee, Karloff e soprattutto Barbara Steele.

Lanciata dagli italiani, la Steele è ancora oggi per tutti il simbolo di un erotismo irraggiungibile, un erotismo nero fatto di seduzione inquietante e perversa: per intenderci, la Steele non era la classica maggiorata a cui bastavano le forme per imporsi. La sua arma di seduzione era il volto, di spigolosa bellezza, e il savoir faire con cui si cavala nei personaggi, rendendoli fisicamente appetibili ma irraggiungibili. La Steele è anche il volto per antonomasia delle pellicole del cinema gotico italiano, in cui al centro della vicenda vi erano sempre donne in situazioni di pericolo e che oggi sarebbe impensabile.

Oltre a Freda e Bava, il cinema horror degli anni Sessanta vide all’opera registi che in passato avevano dato sfoggio di tutta la loro artigianalità, da Camillo Mastrocinque (regista per eccellenza di Totò) ad Antonio Margheriti (che diede vita a particolari ibridi, come E Dio disse a Caino, in cui elementi fantastici si coniugano con atmosfere western), e fece da apripista per un futuro maestro, più sperimentale, come Dario Argento. Ma, come ogni bella stagione che si rispetti, anche quella del cinema horror si avvia al declino ma non senza tentare modifiche strutturali. A metà degli anni Sessanta, le storie si avvicinano al pubblico che, smaliziato dalla televisione, era oramai in grado di distinguere il vero dal falso e di apprezzare storie fantastiche vicine alla realtà che viveva. Le ambientazioni diventarono quindi contemporanee e La morte ha fatto l’uovo ne è l’esempio più lampante. Diretto da Giulio Questi, il film osò anche di più: introdusse nella storia la pop art e disseminò il racconto di ironia. Da lì alla parodia, il passo sarebbe stato corto.

Nella sua lucida disamina, accompagnata da interventi fondamentali di importanti critici francesi (Frédéric Bonnaud, Jean Gili, Jean- François Rauger, Bertrand Tavernier) e di apprezzati autori italiani come Argento stesso o Pupi Avati (che ricorda come Bava salvò il suo Bordella), Boia, maschere e segreti non manca di soffermarsi su una delle caratteristiche fondamentali del genere: l’artigianato seminale che ha caratterizzato la produzione dell’horror. In un’epoca in cui gli effetti speciali erano giochi di luci, i mostri (semplicistici ma ad effetto) erano realizzati da un giovane Carlo Rambaldi e i castelli si trovavano alle porte di Roma, l’arte di arrangiarsi tipicamente italiana ha fatto il resto.

Oltre alle interviste, il documentario per avvalorare le proprie tesi di avvale di sequenze estratte da titoli, imprescindibili per gli amanti del genere, come Sei donne per l’assassino di Mario Bava, Horror di Alberto De Martino, Il Boia scarlatto di Massimo Pupillo, La cripta e l’incubo di Camillo Mastrocinque, Un angelo per Satana di Camillo Mastrocinque, L’orribile segreto del Dr. Hichcock di Riccardo Freda, La morte ha fatto l’uovo di Giulio Questi, Lo strangolatore di Vienna di Guido Zurli, 5 tombe per un medium di Massimo Pupillo, Beatrice Cenci di Riccardo Freda, Nella stretta morsa del ragno di Antonio Margheriti, e Il mostro dell’isola di Roberto Bianchi Montero.

 

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