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In the Bell's Shadow

Regia di Mary Wycherley, Joan Davis vedi scheda film

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La recensione su In the Bell's Shadow

di OGM
7 stelle

Da una pratica psicoterapica, una composizione vivente di arte esistenziale. Una filosofia che si converte in coreografia, in mezzo ad una natura libera e morta, senza passare attraverso il pensiero.

Movimento autentico. L’anima si manifesta attraverso i moti istintivi del corpo, impulsivi, inattesi, e dunque artistici. E dunque danzanti. Non finalizzati ad altro che all’espressione pura dei vari stati dell’essere. Manca l’interazione con la realtà esterna, che rimane ferma ad accogliere gli spostamenti d’aria di quei sensuali arabeschi. L’altro, se vive, e a sua volta si muove, è solo un testimone di quell’individuale divenire, di cui può, tutt’al più, sfiorare la palpitante superficie. Questo armonioso prorompere dell’interiorità, che parla un arcano linguaggio di fremiti, convulsioni, sbilanciamenti, toccamenti, impeti ed esitazioni, è una storia che si narra senza parole. Solca lo sguardo con la complessa, eppure primitiva, traiettoria della sua voglia di consegnare al mondo i propri segreti, rivelandoli nella loro veste più genuina, che non prevede traduzione. L’emozione è dinamismo illetterato, è un disegno dal tratto indisciplinato, che non intende ragione, che non persegue la compiuta raffigurazione di alcunché.  Solo una consolidata convenzione tassonomica ci costringe ad ascrivere questo film al genere sperimentale: qui non c’è ricerca, non v’è indagine, nulla si deve provare, l’idea del tentativo è fuori luogo. A palesarsi, nel suo accadere, è infatti una verità incontestabile, che si crea all’istante, nel momento in cui esce dai recessi dall’intimo per attraversare lo spazio, dotandolo di una altrimenti invisibile organicità animale. I corpi, in questo racconto, si coprono di ossa, di resti cadaverici, si avvinghiano a piante morte, a rocce e sassi, che, sotto la spinta del loro slancio estetico, si trasformano negli oggetti simbolici di un culto disperato: l’avido abbraccio delle membra li rende preziosi, indispensabili punti di riferimento per un’esistenza che ha un forsennato bisogno di confrontarsi con la propria fine, per conquistarla, per risultare alla sua altezza, per dimostrarle il suo infinito amore. Aderendo a quelle forme inerti e severe, difficili da descrivere e cariche di tempo misteriosamente trascorso, la visceralità umana è costretta ad assumere i contorni frammentati di una fredda geometria: nasce così la disciplina comunicativa che sottolinea il limite umano, la nostra impossibilità di essere noi stessi, fino in fondo, senza scendere a compromessi con l’ambiente, senza assumere i codici convenzionali che esso ci suggerisce. La nostra diversità, declinata in solitaria follia,  si fa chiudere in gabbia, ma intanto continua ballare, un po’ afflitta, un po’ incurante, dei mortificanti effetti della forza di gravità. Ed è desolatamente trascinante e tragica, questa libertà indefinibile e sfrenata, che si lascia interrompere nell’atto di corteggiare il suo impietoso destino.

 

scena

In the Bell's Shadow (2015): scena

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