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L'odore della notte

Regia di Claudio Caligari vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su L'odore della notte

di shadgie
7 stelle

l ritorno di Claudio Caligari a 15 anni da Amore Tossico, tra ambienti e linguaggi familiari e incursioni nel nuovo cinema di genere italiano

 

A cinque anni dalla prematura scomparsa di Claudio Caligari per malattia ci si interroga ancora sulle possibili collocazioni da dare al suo cinema, oggetto inconsueto, curioso, affascinante.

In una produzione prevalentemente documentaristica spiccano i tre lungometraggi di finzione, tracce sporadiche che di quel documentare recano i segni, se pur in modo incostante ed estremamente diverso tra loro. L’odore della notte si pone a metà strada tra l’esordio con Amore tossico (1983), parabola straziante che strappa dalla strada i suoi veri protagonisti per raccontare l’escalation delle droghe pesanti alla periferia di Roma nei primi anni ‘80 e il più recente Non essere cattivo (2015), che utilizza attori feticcio di ormai consolidato cinema criminale all’italiana per calarli in un dramma introspettivo in cui la violenza è dimensione psicologica, prima che connotazione estetica e motore dell’azione.

Nel film del 1998 l’azione compare e a tratti sembra essere quasi preponderante, seppur guidata dalla cornice del voice over, che segnala immediatamente la cifra cronachistica, l’esigenza del racconto e del ricordo. Un personaggio realmente esistito, rinominato “Remo”, rievoca ancora una volta quegli anni ‘80 ( e fine dei ‘70) insieme favolosi e squallidi, anni in cui capeggiava un gruppo di criminali che la stampa dell’epoca definì come “la banda dell’Arancia Meccanica” per la crudele e gratuita efferatezza delle modalità di rapina. La voce secca, giovanile e la faccia suburbana e provata di un Valerio Mastandrea quasi agli esordi, ma già investito di un discreto successo (Tutti giù per terra, Cresceranno i carciofi a Mimongo) narrano mescolando un linguaggio greve ed espressioni di borgata alla fluidità narrativa di una lingua scritta corretta, anche se certamente non aulica, in una continua sovrapposizione tra il ieri e l’oggi. Descrive sommariamente i suoi compari, affidati ad attori più maturi ma ancora non completamente scoperti dal cinema e dalla televisione, dalle facce segnate, caratterizzanti, quali Marco Giallini e Giorgio Tirabassi. Arricchisce il cast con un misconosciuto interprete dalla strada, un Emanuel Bevilacqua dalla fisicità esasperata e quasi didascalica nel delineare il carattere e le azioni del suo personaggio, “Il Rozzo”. Il gruppo dà vita ad una serie di rapine, principalmente subite da singoli o coppie di ricchi e borghesi, viaggiando verso le non troppo lontane destinazioni. La fotografia “notturna”, che investe principalmente gli esterni e l’abitacolo dell’automobile dei quattro, taglia sommariamente i volti rendendoli maschere, blocchi umani obliqui e apparentemente inafferrabili. Presto il contrasto termina, per dar spazio all’interazione tragicomica con le vittime vilipese, malmenate, esposte alla luce artificiale delle loro case sontuose e pacchiane come corpi inermi, personalità molli con le quali è quasi impossibile empatizzare. Ad amplificare il senso di estraneità spettatoriale potrebbe contribuire anche la bizzarria dei dialoghi e l’inadeguatezza delle voci recitanti, spesso inserite in doppiaggio, distanti dai corpi. Tradimenti, tentativi maldestri di avvicinamento, piagnistei familiari e figli indifferenti costituiscono un corollario di amenità, alle quali si aggiunge la comparsata canora di un Little Tony (a rappresentare quei derubati “vip” che realmente subirono le scorrerie della banda): un’ironia amara, sottile, evidenza della misera condizione dei rapinatori, uomini piccoli che picchiano a sangue e brutalizzano un’umanità piccola, meschina, mai realmente mostruosa nonostante i tentativi di autoepica compiuti dalla narrazione del protagonista, il cui corrispettivo nella realtà tentò di accostarsi alla figura di Robin Hood.

Di fronte agli intrecci e alle dinamiche raccontate crolla la figura di eroe solitario, mentre Remo si rivela incapace di relazionarsi con chiunque non faccia parte della banda, abbandonato e abbandonante nei confronti delle donne che entreranno nella sua vita: una fragile figura adolescenziale e poi una donna indipendente, volitiva estranea al contesto di borgata in cui è cresciuto ed opera. Remo sciorina la sua parabola fatta di affari immiseriti (l’apertura di un bar di quartiere in cui lavorerà l’amico Roberto, poco avvezzo alla vita criminale), cadute e improvvise impennate, fino al prevedibile e storicizzato epilogo. La cattura assume allora, pur nella sua tranquillità rassegnata, un sembiante di dolore e rinuncia che sembra descrivere impietosamente l’intrinseca staticità di una vita apparentemente in azione.

 

 

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