Espandi menu
cerca
Rifkin's Festival

Regia di Woody Allen vedi scheda film

Recensioni

L'autore

mck

mck

Iscritto dal 15 agosto 2011 Vai al suo profilo
  • Seguaci 209
  • Post 133
  • Recensioni 1075
  • Playlist 312
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su Rifkin's Festival

di mck
8 stelle

"StarDust Rêverie", ovvero: dopo “MidNight in Paris”... “AfterNoon/Matinée in San Sebastián”.

 

La locuzione “testamentario” (aggettivo) è più o meno al terzo posto per inflazione d’uso appena dietro a “implementare” (verbo) e “resilienza” (sostantivo) nel vocabolario de chevet dei gramellin-severgnin-cazzulli (nome comune di genere improprio). Ciò non toglie che “Rifkin’s Festival”, ad oggi l'ultimo lavoro di Heywood “WoodyAllen, nato Allan Stewart Königsberg il 1° dicembre del 1935 nel Bronx da una famiglia ebrea di origini russo-austro-tedesche, sia, a tutti gli effetti, l’ennesimo piccolo gioiello, ebbene sì, testamentario, cesellato con classicità e animato da una leggerezza e una grazia appartenente a pochi (si conclude nello studio di uno psicanalista, là dov'era iniziato, con un coitus interruptus intellettuale nei confronti dello spettatore) e di una profondità invidiabile perché secca, limpida ed, ebbene sì, semplice: “Scoop”, del 2006, sul versante commedia “(im)pura”, lo è letteralmente, “Whatever Works”, del 2009, in chiave dramedy, lo è nel modo più lampante, e, a suo modo, lo è anche “Irrational Man”, del 2015, in piena “tragedia”: a conti fatti, due morti e una morte… rimandata, come tutte, e con questo “Rifkin’s Festival” ecco che il conto sale a pareggio.  

«Comprai una guida per capire se ci fossero dei luoghi che avevo trascurato da poter visitare mentre ammazzavo il tempo prima del mio appuntamento. Vorrei dire che ogni volta che sono in chiesa, è solo l’estetica a cui rispondo. Ma adoro visitare qualsiasi luogo di culto. Ho un grande rispetto per la fede religiosa. Ho letto tutta la Bibbia dall’inizio alla fine, e mi sono innamorato di Eva, della moglie di Giobbe e di Dalila. Il mio strizzacervelli dice che sono attratto dalle donne che mi feriranno. Il Nuovo Testamento è molto più indulgente. Almeno il Messia si fa vivo. Gesù arriva, vestito in modo molto semplice. Guarisce le persone, fa miracoli. Eppure è un tipo normale. Un lavoratore comune. Ecco perché nella mia tesi di laurea scrissi che non sarebbe dovuto risorgere dai morti a Pasqua. È un falegname professionista. Sarebbe dovuto risorgere alla Festa dei Lavoratori.»

Wallace Shawn, ritornate alleniano (“Manhattan”, “Radio Days”, “Shadows and Fog”, “the Curse of the Jade Scorpion”, “Melinda and Melinda”), caratterista di vaglia (dalle tante collaborazioni con Louis Malle - da “My Dinner with André”, progetto molto suo, a “Vanya on 42nd Street”, intorno ad Anton Cechov - a “Marriage Story”) e gran protagonista (“A Master Builder” di Jonathan Demme da Henrik Ibsen), dopo Larry David nel suddetto “Whatever Works”, è il secondo perfetto alter ego alleniano che consente al regista e scrittore, ottantacinquenne al momento delle riprese, di affrancarsi dal ruolo di attore.

 

   ♥     ♥     ♥     ♥     ♥     ♥     ♥     ♥     ♥     ♥     ♥     ♥     ♥     ♥     ♥     ♥     ♥     ♥     

 

Elena Anaya placidamente splende fulgore. Gina Gershon si mette in gioco giocoso giocando. Louis Garrel incarna con “coraggio” una versione di ciò che sarebbe Timoteo Cialacoso se diventasse, dio ce ne scampi, regista. (E quei fortunatamente pochi secondi nei quali inscena la propria versione di “Parco Sempione” - "Te li buco quei bonghi!" - da soli valgono un tot del prezzo del biglietto staccato in una sala cinematografica, del noleggio streaming o dell'acquisto di un supporto fisico, sempre però di una eventuale versione originale sottotitolata.)
Cammei per Sergi López (in un ruolo ch’è la versione non-Bardem di quello presente in “Vicky Cristina Barcelona” e che se fosse stato interpretato da un italiano in occasione di “To Rome with Love” avrebbe scatenato le piagnucolanti giaculatorie sputacchiate dalle gracchianti vecchie zie sceme tempestanti lo stivale tritacco), Steve Guttenberg “fratello fico”, Christoph Waltz in tutina ekerotiana e il corpo-faccia inconfondibile di Richard Kind.

Fotografia (dal 4:3 abitato dai volti bergmaniani al 2.35:1 del triangolo truffautiano, passando per la profondità di campo di “Citizen Kane”, i primi respiri godardiani, gl'invalicabili varchi aperti buñueliani e le carrellate laterali felliniane: omaggi esplicitamente divertiti e sentimentali, come Bertolucci con "Bande à Part", che non pretendono certo di esprimere la profondità di un debord-ghezzi-zizek, ma che vanno a comporre, per l'appunto, il Festival - tutto onirico, e con un solo autore/attore & spettatore/recensore - di Rifkin del titolo) di Vittorio Storaro. Montaggio di Alisa Lepselter. Musiche molto belle di Stephane Wrembel (e accenni di Nino Rota, Georges Delerue, etc...).
Produzione ispano-italo-americana.

Cinquantacinquenne (Gershon) a (Garrel) trentacinquenne: “E poi ho incontrato Mort. Era dolce, e brillante. Ma mi sento ancora come se non avessi, mai, veramente vissuto.”

Settantacinquenne (Shawn) su (Anaya) quarantacinquenne: “Accidenti, mi chiedo con chi sia sposata. Che donna affascinante! Ha davvero dato una carica alla mia giornata!”

♥ Auto-Dream: “Ma io e Sue non abbiamo peccati. E l’unico peccato di Mort è che gli piacciono i film con i sottotitoli.”

O doppiati in svedese…

"StarDust Rêverie", ovvero: dopo “MidNight in Paris”... “AfterNoon/Matinée in San Sebastián”.

(***¾) ****   

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati