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Funny Games

Regia di Michael Haneke vedi scheda film

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La recensione su Funny Games

di Kurtisonic
8 stelle

M.Haneke prende spunto da alcuni fatti di cronaca nera che vedono come protagonisti giovani insospettabili e di buona famiglia, per mettere in luce l’assuefazione alla violenza, alla crudeltà, al sadismo, che attraverso le immagini imposte dai media viene recepita dalla società come una componente sopportabile del vivere quotidiano. Il regista che non nasconde il suo intento provocatore, mette al centro della vicenda lo spettatore stesso, ne ottiene la complicità , manipolando le sue pulsioni inconsce e le riflette sulle immagini. Per arrivare a questo Haneke opera la rottura del patto di finzione con lo spettatore, uno dei protagonisti si rivolge direttamente alla mdp, interroga chi guarda sulle implicazioni dei suoi gesti malvagi, mette in conflitto autocoscienza e irrazionalità, non rende solo più consapevole lo spettatore di ciò che sta accadendo, lo rende protagonista effettivo mettendolo fortemente a disagio. Una famiglia borghese sta trascorrendo una vacanza in una  casa sul lago, i suoi tre componenti vengono sequestrati e torturati da due giovani psicopatici. Nonostante la forte tensione innescata e la programmata e dichiarata volontà dei criminali di compiere le loro efferatezze, Haneke mette clamorosamente fuori campo la violenza nuda e cruda, lasciando solo vedere nelle inquadrature le conseguenze dei loro gesti, alternandole a frammenti innocui di un’impossibile normalità, dal desiderio di consumare del cibo alla superficialità dei loro discorsi, attivando codici comunicativi che sfiorano il paradosso e il ridicolo, ma che in realtà confliggono fortemente con lo smarrimento dello spettatore. Il ruolo di chi guarda, fondamentale  come detto in questo film, è diviso fra il disagio e l’immedesimazione nello stato d’animo degli ostaggi, e la subdola posizione di condivisione dell’atto criminale richiesta espressamente dai due giovani. Se la vicenda in sé non offre qualche spunto particolare per ciò che racconta, diventa invece stimolante e frustrante per come ci viene offerta, i criminali agiscono ingiustificatamente, senza motivo, i dialoghi fra di loro (che si scambiano più volte il nome, Peter e Paul)  rivolti alla famiglia in ostaggio ricalcano il vuoto morale, il decadimento culturale dell’intera società, trasformata in un lugubre e triste scenario in cui solo la violenza può definirsi in piena libertà, uscendo dall’immagine spettacolarizzata della finzione per manifestarsi in modo crudo, agghiacciante e tragico. Gli ostaggi restano increduli di fronte a comportamenti così  crudeli che credono non possano appartenere alla realtà, i due sequestratori esteriormente sembrano simili a loro, nei modi composti, eleganti, raffinati. Paul e Peter sono il volto oscuro della natura più perversa dell’uomo, senza possibilità di spiegazione, sono anche la materializzazione della macchina dello spettacolo, dove l’immagine si muove e dunque qualcosa “deve” succedere. Haneke sferza un ulteriore colpo basso con una scena che negli anni ruggenti della nascente critica del cinema moderno d’autore avrebbe sollevato discussioni pari alla “carrellata” di Pontecorvo in Kapò, e in ogni caso lo scalpore e il dibattito intorno alla famigerata sequenza rewind con il telecomando non è certo passata inosservata, contribuendo ad alimentare le alte o basse fortune di Funny games. La scena incriminata teorizza nel suo tranello cerebrale, l’inconscio desiderio dello spettatore nel non sottrarsi al male, come se lo riconoscesse come l’unico e vero motore del mondo portato all’azione, generatore continuo di immagini che si muovono.

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