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Etre vivant et le savoir

Regia di Alain Cavalier vedi scheda film

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La recensione su Etre vivant et le savoir

di EightAndHalf
7 stelle

Essere vivi e saperlo, riconoscersi vivi. Operazione dunque di auto-riflessione, o auto-riflessività che sfocia nell'auto-analisi, inserita nell'informe contenitore del cine-diario, girato in digitale e in modo amatoriale. Come dice Alain Cavalier - la cui interiorità è la vera protagonista di questo suo ultimo grandissimo film - il mestiere di regista è l'attività di un uomo primitivo, che è come se scoprisse per la prima volta ogni cosa che vede e inquadra; una coscienza umana che inizia con la prima immagine di un film e finisce con l'ultima, che vive solo in quei confini e non può superarli. In questo concept si ascrive quella naturale propensione dell'occhio cinematografico di Alain Cavalier a fissare gli oggetti e indagare la loro pura presenza - non come pura e esasperata espressione di un'energia, come in Philippe Grandrieux, ma come estatica fissità statuaria - senza sovrastrutture né orpelli, con al massimo divagazioni poetiche suggerite da una delicatissima e affettuosa voce fuori campo, che scandisce i tempi e i versi di un poemetto intimo e riservato qual è Etre vivant et le savoir.

 

La cine-confessione di Alain Cavalier passa appunto attraverso gli oggetti che lo circondano nella sua abitazione parigina: la telecamera digitale con cui osserva le cose, il televisore, i quadri, i frutti e le foglie che raccoglie, addirittura gli animali - un gatto nero, un piccione. Quasi come con un correllativo oggettivo, riusciamo a percepire un mondo a partire da un dettaglio, ma anche e soprattutto da un movimento di camera, che lascia un soggetto e ne inquadra un altro lasciando intendere in quello scarto tanto e molto di più di un semplice cambio di soggetto. Ci ritroviamo a volte ad ascoltare addirittura Cavalier descrivere la sua inquadratura, parafrasarla a parole, senza che questa stessa inquadratura perda una minima percentuale della sua poesia, e anzi, riuscendo a riempirla ulteriormente di patos e struggimento. Quasi come in Jonas Mekas, Cavalier sa trovare nella semplicità di un'immagine digitale, grezza e piena di difetti, un mondo intero e interiore che si traduce in gesti, in carrellate sgraziate, in riflessi. Ecco dunque delinarsi davanti ai nostri occhi tutto l'affetto di un uomo per un'amica (Emanuèlle Bernheim) negli ultimi giorni che separano quest'ultima dalla morte per cancro. Il mondo di Cavalier, che si era caricato delle aspettative e degli entusiasmi per un nuovo progetto cinematografico da realizzare con l'amica sulla base della sua autobiografia, implode fino a raccogliere i propri cocci tramite una serie di riprese semplici, candide eppure talmente straripanti da risultare incontrollabilmente commoventi. E alla fine ad esplodere è la quieta e malinconica intimità del nostro regista, un'intimità che impariamo a conoscere, ad amare e a condividere.

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