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Saturday Fiction

Regia di Ye Lou vedi scheda film

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La recensione su Saturday Fiction

di EightAndHalf
8 stelle

Esiste un fil rouge, fra i tanti che connettono i capolavori del presente con quelli del più recente passato. Un filo che parte forse da O Thiasos di Angelopoulos, Satantango di Béla Tarr, per finire dalle parti di Platform di Jia ZhangKe e Melancholia di Lav Diaz, e che viene fuori di tanto in tanto ad esprimersi, imprevedibile e forse inconsapevole, in grandi film più recenti. Si tratta dell’accostamento certamente impegnativo di Storia e Teatro. In tutti i film citati c’è un’ “interpretazione”, di una o più persone, che diventa fondamentale miccia per lo svilupparsi di un evento, di un fatto di qualsiasi genere. Un meccanismo questo che ci porta a vedere la storiografia e la rilettura della Storia come una rappresentazione, una performance, come nel recente Traditore di Marco Bellocchio, in cui l’aula bunker del processo che vedeva coinvolto Tommaso Buscetta diventava un’arena di gladiatori. Di messa in scena si parla esplicitamente anche in Saturday Fiction di Lou Ye, viaggio turbinoso in una storia di politica e spionaggio, ambientata nell’ “isola” di Shanghai (concessione francese) nei suoi ultimi giorni di vita prima del bombardamento di Pearl Harbour. Il film rilegge questo fondamentale evento della seconda guerra mondiale come il punto di arrivo di un accumulo di tensioni internazionali che a Shanghai esplodono in tutte le loro complicazioni. L’attrice interpretata da Gong Li (che sarebbe una meritata coppa Volpi a Venezia 76) va a Shanghai per interpretare la parte di una proletaria in una pièce, ma è in realtà interessata a liberare l’ex marito prigioniero dei giapponesi, sotto la cui sfera di influenza si trova l’intera città. Si innamora intanto di un componente della compagnia teatrale, con cui si ritrova a recitare, e questo amore è intrecciato a doppio nodo con la comparsa di almeno altri 4 personaggi principali che si muovono in scena un po’ come in Sunset di Laszlo Nemes dell’anno scorso, ma senza programmaticità né artifizio. Se nel film di Nemes venivamo trasportati da un quartiere all’altro di Budapest, qui veniamo trasportati da un livello di finzione a un altro, senza alcuna soluzione di continuità, fra i vortici narrativi della rappresentazione e della vita vera, come due fili elettrici paralleli che verranno alla fine – tramite la violenza e in generale il genere cinematografico – costretti a un caotico cortocircuito. Il bianco e nero di Saturday Fiction satura ulteriormente questa complessità di scrittura, insieme a una regia mossa che pedina, corre, fa capriole addosso ai personaggi per non lasciarli mai andare, e sa trasformare velocemente un primo piano romantico in un dettaglio macabro e sanguinolento. Un viaggio vero e proprio, un’odissea noir, che ci fa riscoprire una fiducia ormai rara nella capacità del cinema contemporaneo di decostruire le nostre certezze di spettatori. 

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