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Strade perdute

Regia di David Lynch vedi scheda film

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La recensione su Strade perdute

di EightAndHalf
8 stelle

L'immagine intrusiva.

Vivere e guardare, la visione della vita o la vita dell'immagine. Immaginiamo che un doppio esista nel continuo ripetersi/alternarsi di queste due forme/dimensioni. Il guardare, che impone un osservatore, e il vivere, che è solo per sé, nelle proprie più grandi funzioni vitali. 
Ebbene, dove Lynch affida l'immagine al vivere e l'immagine al guardare? E' ben consapevole, il grandissimo regista americano, che anche quando si vive dentro la pellicola, questa è destinata a vedersi? Sembra che il suo intento sia quello di creare un infinito rincorrersi di risposte e di domande, come quando mettiamo davanti due specchi e quelli riflettono all'infinito, secondo una curvatura ideale regolare, loro stessi, in fondo, ma mai loro stessi come sono veramente, ma loro stessi riflessi, centinaia e centinaia di volte. E noi, in mezzo a quegli specchi, possiamo muoverci e vederci in migliaia di posizioni diverse. Lo specchio amplifica. Rende gli spazi più grandi. Rende percettibile, a livello sensoriale, l'illusione dello spazio, tanto da abolire una vera e propria sensazione di claustrofobia.
Perché invece Lynch ci immette in questo flusso di riflessi per farci avvertire sempre più claustrofobia? Forse perché a lui non interessa soltanto lo spazio che sta tra gli specchi. A lui interessa cosa c'è dietro lo specchio, chi è che lo tiene, o magari chi l'ha messo lì. Che questo qualcuno l'abbia messo proprio per noi? O che forse l'abbiamo messo noi stessi?
Allora basta chiederci quali, delle due o tre fasi di Lost Highway, il protagonista diffratto stia effettivamente guardando solo lo spazio tra gli specchi, senza osservare questi ultimi, e quando osservi solo gli specchi senza guardare lo spazio effettivo. Quand'è, insomma, che Fred/Pete guarda se stesso? Quand'è che, osservando le immagini presunte vere di una videocassetta, lui sta guardando la verità, o solo una documentazione del suo intero stato esistenziale? Da dove vengono le misteriose cassette che sembrano minare le sue certezze borghesi (Haneke, Caché, woah!) e distruggere la sua vita? Vogliamo davvero credere che lui sia un povero schizofrenico incapace di controllare i propri impulsi e dimentico dell'altra parte della sua mente, solo perché il film con i suoi flash(back?, forward?), dà l'idea della paonazza psichedelia? O forse questa schizofrenia (follia dunque) sarebbe una interpretazione spinta troppo in là e non in grado di cogliere la profonda nutrientissima cerebralità di Lost Highway? L'unica vera malattia di Fred/Pete è essere vivo e voler permettersi un sogno, un'alternativa. E la sua alternativa è vivere finalmente con la sua amata Renée/Alice nella casa tipicamente borghese, fredda e asettica, che puzza di marcio sogno americano illusorio e stra-finto. Destinato, insomma, a morire, come qualsiasi illusione, che possa solo rendersi conto di essere una lunga serie di sinapsi nervose che in un'allegorica sedia elettrica possano friggersi e crollare su se stesse. 
Una vita fanciullesca è quella di Pete, agile ragazzo ingenuo e allupato che non si guarda, ma vive e basta. Quantomeno finché non finisca per osservare una donna con cui è abituato ad andare a letto in un giganteggiante filmato pornografico e capisca possa esistere un riflesso (l'atto erotico sotto i riflettori non è un nuovo incontro carnale fatto soltanto e unicamente per essere osservato, ripreso, filmato?). Capisce che può esistere un sogno, destinato di per sé a morire (e lui lo sa), ma che può essere perseguito comunque, cascasse il mondo anche solo pochi secondi sarà bello vivere accanto a Renée. Anche se tutta la tua variegata vita sarà incasellata dentro una scatola di casa asettica e fuori da reale. 
Finché si deciderà di tornare indietro dall'esplosione, di non permettere a Alice di morire, magari, nell'esplosione, o comunque di non permetterle di fargli quello che gli ha effettivamente fatto, e metterla al suo posto giusto, in un umiliante delirio di onnipotenza che - vogliamo chiamarla follia? - è l'unica possibile vera felicità (americana, universale). Nel tilt nervoso degli ultimi minuti di Lost Highway, quando effettivamente Pete prende la decisione di trasformarsi in Fred (già di per sé condannato a morte), è iniziato il sogno, la perversione dell'immagine, del guardarsi, del riprodursi avidamente e in maniera frustrante in un mondo coatto e indecifrabile, in cui qualcosa sfugge (al protagonista come a noi) e Lynch non fa altro che riprendere, sornione nanetto malvagio, e perversamente si diverte a riportare il suo protagonista (quasi avulso dalla trama stessa, quasi vivo di vita propria) nella sua triste realtà fallimentare, perché il mondo continua a girare e abbiamo visto il risibile tentativo di un uomo di corrompere, di quel mondo, un ingranaggio. Il motore è davanti ai nostri occhi, siamo noi a tenere gli specchi riflettenti, perché amiamo guardarci e amiamo vivere nel nostro sguardo. Di esseri umani. Di spettatori. 

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