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1917

Regia di Sam Mendes vedi scheda film

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La recensione su 1917

di lussemburgo
6 stelle

 

È un percorso limpido quello che impone ai suoi piccoli personaggi il regista inglese in 1917, un tragitto cinefilo che parte da Kubrick e Spielberg e attraversa una campagna britannica trasformata in set teatrale di evidenza espressionistica. Prendendo le mosse dalle trincee di Orizzonti di gloria, inquadrate al livello dello sguardo dei commilitoni, il percorso dei protagonisti viene annunciato dal superiore ed enunciato nelle modalità di Salvate il soldato Ryan: superare il fronte per raggiungere il fratello di un militare. In questo caso si tratta di sventare un attacco dell’infido nemico crucco che finge la ritirata al fine di salvare un intero battaglione inglese, mentre il percorso, lineare nel concetto e nei tempi dei falsi piani-sequenza, diventa frastagliato e complesso, attraversa il giorno e la notte, la devastazione diversamente declinata degli scenari di guerra, che si susseguono come i set del film o ambientazioni differenti in successione e con un grado di invalicabilità crescenti.

Il nemico rimane invisibile e quasi astratto, relegato alle figure distanti e senza volto di cecchini o di piloti di aereo, di pattuglie avvolte dall’ombra, a sagome che imbracciano fucili e vociano incomprensibili sillabe. Accompagnati dalla morte e dalla desolazione, inseguiti dei tedeschi nascosti e da proiettili imprevedibili, avanzando per mare, aria e acqua, i protagonisti perdono progressivamente dignità e umanità, smarriscono l’identità mentre il corpo viene sottoposto alla tortura della sopravvivenza o all’assurdità di una morte improvvisa, si spogliano di armi e di voce, perdono anche il pensiero ricondotti al solo gesto, intimamente assurdo, dell’avanzare verso il traguardo. La notte le rovine cittadine si accendono di luci paradossali con dominanti storiariane (l’ambra di Apocalypse Now), si illuminano brevemente di colpi di mortaio che sembrano fuochi d’artificio, per ricadere nel buio che domina uomini e le rovine di ogni civiltà. Fino a giungere al candore nebbioso di un prato, con i soldati riuniti ad ascoltare un canto di preghiera, in un’arcadia impossibile per la vicinanza con il campo di battaglia e l’immanenza della violenza, l'immancabile promessa di morte.

Al di là della bellezza delle immagini, le cui accensioni cromatiche rimandano al technicolor di Via col vento, citato successivamente nell’apparente enfasi di War Horse di Spielberg,in cui il punto di vista bressoniano (‘Balthazariano’) sul conflitto mitiga ogni retorica, nel film spicca la spocchia di Mendes nel creare un percorso ad ostacoli. I due sconosciuti, attori non noti in ruoli di nessun rilievo militare, senza grado e quasi privi di nome, vengono mossi come pedine sacrificabili da un generale e indirizzati verso un altro graduato per uno scopo che è un McGuffin drammaturgico, un pretesto per l’attraversamento dell’inferno delle linee nemiche a palese dimostrazione della evidenza crudele della guerra. Nel tragitto da Colin Firth a Benedict Cumberbatch, i divi noti tra cui si muovono i due attori giovani senza fama, c’è spazio anche per la tappa intermedia del fratello da avvertire, interpretato dal meno prestigioso (perché televisivo) ma ben conosciuto Richard Madden, assunto a gloria col Trono di spade, come giustificazione drammaturgica del tragitto fatto ed espediente per ribadirne la tragicità.

Il resto del film è il percorso irto di ostacoli per le vittime predestinate, tra allegorie poetiche (il campo fiorito), espressionismo pittorico (le rovine cittadine), assurdità fatali (il biplano che piomba sulla fattoria, con echi hitchcockiani di Intrigo internazionale, così come nel corpo a corpo successivo la cui violenta secchezza fa pensare a Sipario strappato), accenni rossellinani (i rifugiati tra le macerie, in cerca di vita ad ogni costo) e quanto cinefilia imponga nel maneggiare l'argomento bellico con dovizia di cultura e di riferimenti adeguati.

Ma è proprio nello snobismo del far muovere i piccoli protagonisti da star a star e con la plateale evidenza di un piano-sequenza forzoso e privo di qualsiasi valore morale (baziniano), perché digitalizzato e artefatto, quindi estraneo ad ogni significato di restituzione del reale, che il film si denuncia come espressione di una volontà di evidenza stilistica fine a sé stessa. Si tratta di un artificio stilistico manifesto, di una sottolineatura che diventa evidenziazione per poter spiccare come conquista artistica e imposizione di senso. Nella sua stessa costruzione, il film si rivela un gioco a fare l’autore colto, a cercare di impressionare a tutti i costi nel creare una macchina da Oscar in tempo per la cerimonia (che gli ha fruttato solo premi tecnici come effetti speciali e sonoro, oltre alla fotografia emozionale di Jenkins) per costruirsi una nuova credibilità dopo le concessioni bondiane al commercio e al successo.

Eppure sono proprio i due film di 007 (soprattutto Skyfall, mentre SPECTRE dimostra già una certa stanchezza) che danno maggior credito al regista, mentre questo suo opus d’autore sembra solo la versione iper-realistica di un videogioco di combattimento con livelli da superare, uno sparatutto in soggettiva straniante in cui l’eroe quasi mai fa fuoco. Poiché ormai la maggior parte dei film d’azione sfrutta le possibilità del piano sequenza impossibile per esaltare la continuità del movimento, disossando di senso quello del finale di Professione Reporter o il tempo continuativo e meditativo di Nodo alla gola per farsi semplicemente manifesto di possibilità tecnologiche alla portata di tutti. E per rimanere a Spielberg, omaggiato da Mendes e tra i produttori di 1917, il suo Tintin è un rutilante unico piano-sequenza che traduce in animazione la mobilità del tratto leggero del fumetto (che prosegue idealmente la rapidità precipitosa e ludica di Indiana Jones), e le sequenze di Ready Player One sono una mimesi della fluidità dei videogiochi nella realtà aumentata del cinema come immaginario comune (e non il contrario). Ed è quasi ironico che nell’ultimo Bond con Craig il regista sia diventato Cary Fukunaga, che si era fatto notare con i piani sequenza implacabili della prima stagione di True Detective, passando così dalla tv al cinema, da esecutore a regista e autore.

 

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