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Pinocchio

Regia di Matteo Garrone vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Pinocchio

di shadgie
7 stelle

Dopo circa due anni di lavorazione e una ricerca accurata del protagonista bambino (Federico Ielapi, già visto in Quo Vado) Matteo Garrone dà vita al nuovo e atteso Pinocchio, la terza versione dopo l’acclamato sceneggiato anni ’70 a firma di Luigi Comencini e il poco ispirato tentativo di Roberto Benigni nel 2002.

Come per il precedente Il racconto dei racconti non basta il ricorso ad una fotografia livida, in lento ed inesorabile incupirsi, né il parlato cadenzato, altalenante e incerto a delineare i caratteri dei suoi protagonisti. L’incursione nell’universo favolistico e in un’irrealtà che non è solo deformazione psicologica ed estetica del reale si ispira abbastanza saldamente al testo originale, celeberrimo e forse per questo destinato a continue infedeltà adattive. Con perizia tecnica si tratteggia il volto e il corpo di un protagonista non del tutto umano, riuscendo a coglierne le espressioni legnose e insieme insperatamente vive, quasi sempre concentrate in una maschera di ostinazione e irrequietezza infantile.

A circondarlo, l’iperrealtà delle botteghe e delle strade rionali, la vivida senilità di volti e corpi, di casacche preziose e consunte in un’atmosfera che attraversa epoche e spazi con passo delicato e sognante: l’avventura si dipana in borghi con ben poche caratteristiche “moderne” ma inscritti più chiaramente in una sorta di post – medioevo fiabesco, inoltre il viaggio di formazione del protagonista si attarda in luoghi noti d’Italia anche geograficamente lontanissimi, alternando campi d’ulivi, prati immensi, città di sassi e un insieme variegato di cadenze regionali. Geppetto – Benigni compie abilmente la transizione da sguaiato burattino a tenero e fragile anziano, con accenti e movenze opportunamente sopra le righe e il richiamo tragicomico ad una decadenza fisica ed intellettiva che ben si amalgama allo stile registico. Resta quel retrogusto grottesco già esplorato altrove e declinato qui al tratteggio di paure e ossessioni infantili, soprattutto nelle ossa di legno scricchiolanti ad ogni inquadratura, nella scena del fuoco, che causa la mutilazione delle gambe di legno del protagonista o nei volti corrucciati, deformati e dipinti degli attori nani, chiamati ad impersonare i burattini di Mangiafuoco e il grillo parlante (il già attivo al cinema e in televisione Davide Marotta). Se nella direzione degli attori Garrone si allontana quasi sempre dall’uso di semplici “facce da strada”, prediligendo un cast di volti noti (Barbara Enrichi, in un cameo, e Ciro Petrone, il Pisellino di Gomorra) ed iper noti ( Benigni, Proietti, Ceccherini e Papaleo) sui quali si gioca almeno in parte un senso di riconoscibilità e di affezione, il racconto classico segue un’andatura solo apparentemente lineare.

 

Più volte è possibile notare elementi che rileggono pedissequamente il testo di Carlo Collodi, aiutati da una fotografia volutamente poco accesa: i capelli della fata Turchina e l’avvicendarsi delle età sulla sua figura, l’impiccagione di Pinocchio al Campo dei Miracoli, qui anticipata da una sequenza onirica dell’albero carico di monete dall’impattante potenza immaginifica, e soprattutto il ritorno del Pescecane. L’antro umido e cavernoso in cui Pinocchio finisce e dona un nuovo significato al suo agire sembra infatti il compendio all’esplorazione di un mondo cupo, tetro, in cui la speranza resta attaccata ad un filo sottilissimo e i denti dell’animale sono inquietanti ma stranamente arrotondate tagliole di passaggio. Non più l’enorme e quasi confortevole balena di disneyana memoria dunque, quanto un luogo semovente in cui si annidano tremori e angoscia, cenno ad una realtà esterna astringente. Il film aveva già disseminato di segnali sinistri le avventure del bambino di legno, offrendo un punto di vista obliquo rispetto al romanzo, mutuato forse dallo sguardo di spettatori contemporanei: in tal senso la violenza fisicamente ostentata del maestro non ha la valenza esortativa del libro ma resta fine a se stessa, segnale non isolato di un’età adulta sorda e non comunicante con l’infanzia e la prima adolescenza di cui Pinocchio si fa stereotipo. Adulti e ragazzi restano dunque distanti, se non con poche eccezioni rappresentate dall’iperumano puerile e insieme antico della fata, prima bambina e poi donna ma forse semplicemente “spirito” custode (Marine Vacht, da adulta), dal burbero ma umanissimo Mangiafuoco (Proietti) e, in modo non troppo consueto, da un Geppetto che dispensa amore e consigli con genuina ingenuità , finendo per sembrare l’accudito e non più l’accudente. Più di una volta l’uomo è infido, predatore, non tanto nella stolta figura del maestro quanto nell’iconico ghigno melenso dell’Omino di Burro (Nino Scardina) o nell’umanità – animalità derelitta del Gatto e della Volpe.

 

 

Come accade per l’ipnotica lentezza del Pescecane, la cui dentatura lievemente smussata non riesce realmente ad atterrire chi guarda, le scelte stilistiche e la destinazione iniziale della storia lasciano traccia di un’opera accurata e godibile ma non troppo affilata nell’inoltrarsi tra le brutture del mondo trasfigurato dalla magia, pur nei lievi sommovimenti provocati da alcune scene in cui si insinuano interrogativi più che profonde e durature inquietudini. In tal senso, il film non sembra centrare un target preciso e a trasformarsi in un prodotto commerciale, rischiando di lasciare indifferenti giovani spettatori visivamente non troppo allenati (i cosiddetti “fanciulli”, i coetanei di Pinocchio o già di lì) o di costituire un sovraccarico emotivo e visivo per i piccolissimi. (recensione pubblicata qui)

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