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Pinocchio

Regia di Matteo Garrone vedi scheda film

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La recensione su Pinocchio

di Peppe Comune
6 stelle

Geppetto (Roberto Benigni) è un povero falegname che desidererebbe tanto avere un figlio. Un giorno, incuriosito dal teatro di marionette di Mangiafuoco (Gigi Proietti) arrivato in paese, decide di fabbricarsi un burattino di legno. Così, per avere un po’ di compagnia. Chiede a Mastro Ciliegia (Paolo Graziosi) se ha un pezzo di tronco da regalargli. E il collega falegname gliene cede volentieri uno dall’aspetto alquanto misterioso. Così Geppetto si mette subito a lavoro e chiama il suo burattino Pinocchio (Federico Ielapi). Al mattino, con sommo stupore, il povero falegname scopre che il suo Pinocchio ha preso vita, parla, vede e si muove come un qualsiasi bambino. Decide quindi di mandarlo a scuola, di offrirgli quell’educazione che lui non ha mai avuto. Ma il burattino è più propenso a girovagare per le campagne che ad andare a scuola come un bravo bambino. Così se ne sta sempre in giro, finendo nelle grinfie del Gatto e la Volpe (Rocco Papaleo e Alessandro Ceccherini). Non bastano i consigli che gli danno il Grillo Parlante (Davide Marotta) e la Fata Turchina (Alida Baldari Calabria e Marine Vacht), Pinocchio è proprio nato per cacciarsi continuamente nei guai. A soffrirne è naturalmente Geppetto, che non ha fatto in tempo a ricevere per dono un figlio che subito si vede costretto a doverlo cercare chissà dove. Anche in cima al mondo se è necessario.     

 

Federico Ielapi

Pinocchio (2019): Federico Ielapi

 

Sono troppo legato al Pinocchio di Luigi Comencini per non sentirmi obbligato, in via preliminare, a fare un atto di chiara onestà intellettuale e ammettere che una qualsiasi altra trasposizione dell’opera di Carlo Collodi mi possa scoprire un po’ prevenuto. Soprattutto per chi ha trascorso tutta la prima infanzia lungo tutti gli anni 70 e i primi anni 80, non è azzardato affermare che “Le avventure di Pinocchio” si è impressa con relativa facilità come un’opera archetipa, piena, cioè, di personaggi emblematici che a diverso modo e per diverso tempo hanno popolato l’immaginario “acerbo” di un bambino. Questo al di là del suo intrinseco valore cinematografico e delle innumerevoli licenze che Luigi Comencini si prese rispetto al testo letterario, necessitate anche dalle ristrettezze finanziarie che costrinsero il regista a fare di “necessità virtù” (ad esempio, effettivamente Pinocchio diventa bambino solo nel finale, ma Comencini lo fece essere più bimbo che burattino perché, evidentemente, non poteva contare sulla possibilità fattiva di far recitare un bambino con le sembianze di legno). Ma la mia supposta prevenzione non nasce affatto da questo aspetto, e neanche risiede nella presenza di attori che mi si sono impressi sin dall’infanzia come delle riconoscibili maschere iconiche. Chi ama il cinema dovrebbe sapere che l’interpretazione di certi ruoli non deve mai imbalsamare la possibilità di traslarli in altre facce in tempi differenti. La mia prevenzione risiede tutta in quella che mi piace definire l’archeologia dei luoghi, una specie di condizione dello spirito che porta la mente, quasi per forza di inerzia, ad orbitare tra i luoghi della memoria avvolgendola in una luce forte e trascendente, capace di emanare dei colori e un calore senza tempo. Nel film di Comencini, tutta la rappresentazione d’ambiente, rurale e sottoproletaria, bastò da sola a far aderire il senso di tristezza sprigionato dalla povertà più stringente con i voli della fantasia scaturiti dalle allegre “avventure” di Pinocchio, il senso dell'ordine praticato dagli adulti con la volontà infantile di farsene allegramente beffa. L’emozione era data (anche) dalla tristezza, e la tristezza era rinvenibile in una condizione umana posta a portata di occhio, perché esisteva in una maniera molto fedele a come veniva effettivamente rappresentata.

Ecco fatte tutte le premesse del caso, doverose credo, fosse solo perché, con un film seminale come quello di Comencini, penso sia necessario chiedersi quanto si sia impresso nell’immaginario collettivo anche più dell’opera letteraria da cui trae origine. E come sia possibile non farvici i conti ogni qual volta si presta l’occasione di godere un “nuovo” Pinocchio cinematografico.

Non so se è possibile ricrearla quella luce, e neanche è importante farlo. Ogni cosa deve tendere a conservare una sua unicità, ed ogni trasposizione cinematografica di Pinocchio deve limitarsi a generare in chi guarda un palpabile senso di meraviglia. Per questo, dal “Pinocchio” di Matteo Garrone ho cercato di scorgervi solo la forma cinema messa al servizio di una storia fantastica. Convinto che non mi avrebbe deluso riguardo al primo aspetto, perché è troppo bravo per non aspettarsi da lui un film tecnicamente inappuntabile. Ma il fatto è che la magniloquenza della forma ha finito per mangiarsi quella quota di emozione che non si può non richiedere ad una favola nata per generare stupore. Tutto appare più asettico e calcolato del necessario, più finto di quello che la finzione cinematografica chiede come dazio. Questo Pinocchio ricalca molto di più di quello di Comencini l’opera di Collodi, e per quanto possa sembrare paradossale, è probabilmente questo seguire alla lettera la linea della favola ad avergli tolto quell’alone di vitalismo libertario che la figura iconica di Pinocchio ha sempre fatto emergere dalle sue marachelle da bambino disubbidiente. Ecco, il Pinocchio di Garrone non è discolo, lui finisce per fare cose sempre diverse da quelle che gli dicono Geppetto, il Grillo o la Fata, ma perché è un buono incapace di dire no e non perché ha in sé quell’inconsapevole spirito di ribellione che lo porta a voler trasgredire agli ordini. Perché è totalmente spoglio di conoscenza del mondo  e non perché gli interessa conoscere solo quello che lo fa divertire. Il burattino di Garrone non è un birichino imbevuto di istinto anarcoide, non ha gli occhi svegli di chi è sempre pronto a cacciarsi nei guai, a fare un’altra marachella, a dispiacere chi gli vuole bene senza affatto saperlo.

Un altro aspetto che mi ha convinto poco è il modo “frettoloso” in cui vengono risolte delle fondamentali situazioni narrative. Passi per la marginalità subita da alcuni personaggi chiave (Mangiafuoco, il Grillo, la stessa Fata), dovuta, evidentemente, alla durata non eccessiva del film. Ma non si può giungere alla trasformazione finale in bambino senza che ci sia stata un’adeguata preparazione emotiva a precederlo. Non c’è meraviglia in quel “lieto fine”, anche negli occhi di Geppetto che finalmente vede esaudito in pieno il suo sogno di essere padre. Perché il desiderio del burattino di diventare un bambino come tutti gli altri è stato espresso in una maniera troppo fugace per potersi imporre come la trama portante dell’intera storia. Né tantomeno si può risolvere in pochi minuti tutta la parte del Pescecane, dove nella volontà di Geppetto di rimanere nel corpo del pesce (veramente liquidata in un batter d’occhio) ci sono dipanati quasi tutti i nodi poetici voluti da Carlo Collodi per la sua favola adatta anche per gli adulti : l’emancipazione dalla povertà, che deve passare dallo sradicamento dell’uomo dalle sue origini ; la semplicità affettiva del padre, a cui basta rimanere col figlio ritrovato per essere felice ; la rilettura del mito della caverna di Platone, per cui l’uomo si fa bastare i simulacri del reale pur di sfuggire dalle insidie del mondo ; l’esplorazione del mondo del bambino, che non vuole conoscere limiti se non nella scoperta della solidità del bene filiale.  

È la seconda volta che Matteo Garrone si cimenta con una storia fantastica, ma se nel “Racconto dei racconti” (da “Lo cunto de li cunti” di Gianbattista Basile) le venature gotiche erano funzionali per conservare l’impronta mitica dei personaggi, in “Pinocchio” il carattere mitico di ogni situazione viene proprio svilita dall’opacità conferita ai colori che dominano la messinscena. Perché ad uscirne svilita è la semplicità al naturale dell’ambientazione rurale, la marginalità sottoproletaria del popolo “reale”, quella luce fantastica che nelle migliori favole nasce per essere senza tempo. Tutte cose, rispetto alle quali, la figura iconoclasta di Pinocchio dovrebbe rappresentare una sorta di nemesi irriverente.

Ma è un film tecnicamente inappuntabile, si è detto. A convincere, infatti, è l’intero impianto della messinscena: i trucchi e i costumi (di Mark Coulier e Massimo Cantini Carrini), la scenografia (di Dimitri Capuani), la fotografia “finto povera” (di Nicolaj Bruel). Insieme all’ottima resa di diverse figure “secondarie” : la Lumaca (Maria Pia Timo), il giudice gorilla (Teco Celio), il maestro (Enzo Vetrano). Tutti a dare un vago sapore felliniano alle vicende trattate. Ma è la bella forma che in questo caso non è bastata a fare innalzare il film oltre una stentata sufficienza. Perché, anche se non mi è dispiaciuto, il "Pinocchio" di Matteo Garrone non è proprio riuscito ad emozionarmi.                                

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