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Martin Eden

Regia di Pietro Marcello vedi scheda film

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La recensione su Martin Eden

di Peppe Comune
8 stelle

Il marinaio Martin Eden (Luca Marinelli) salva da una rissa il giovane Arturo (Giustiniano Alpi). Per essergli riconoscente, il ragazzo lo invita a casa per presentargli la famiglia, che appartiene all’agiata borghesia cittadina. È così che conosce Elena (Jessica Cressy), che lo inizia alla conoscenza dell’arte e della letteratura. Martin Eden ed Elena s’innamorano, ma il loro amore deve passare per la completa alfabetizzazione culturale dell’uomo per potersi realizzare completamente. Lo vuole soprattutto Martin Eden, che spronato dal raggiungimento dell’amore di una vita, inizia un approccio intensivo con la letteratura che lo porta ad immergersi totalmente nel dibattito culturale d’inizio 900, incentrato soprattutto sulla fede alla dottrina liberale e sulle relative critiche all’individualismo operate dal pensiero Socialista e dalle teorie evoluzioniste di Herbert Spencer. Ha un buon rapporto con la sorella Giulia (Autilia Ranieri), unico legame filiale rimasto, meno con il cognato Bernardo (Marco Leonardi), che lo caccia via di casa rinfacciandogli di essere un parassita. Nel suo girovagare ramingo, trova un aiuto solidale in Maria (Carmen Pommella), una contadina che lo riempie di calore con la sua semplice saggezza rurale. In questa fase della sua vita, Martin Eden trova un nuovo mentore in Russ Brissenden (Carlo Cecchi), che fornisce una spinta ulteriore alla sua completa emancipazione intellettuale e alla sua aspirazione di diventare un grande scrittore. Ci riesce dopo tanti tentativi falliti, quando la sua consapevolezza intellettuale gli fa avvertire l’urgenza della lotta di classe e i limiti conservativi della morale borghese. Ma il successo letterario pratica su di lui un progressivo isolamento da quel mondo operaio e contadino che lui vorrebbe contribuire a riscattare. Anche il sentimento per Elena cambia, perché in lei scorge i difetti di una cultura fine a sé stessa, che non scuote le coscienze, depotenziata della sua carica progressiva.

 

Luca Marinelli

Martin Eden (2019): Luca Marinelli

          

“Martin Eden” di Pietro Marcello, liberamente ispirato al romanzo omonimo di Jack London (pubbicato nel 1909), riesce nell’intento affatto scontato di instaurare una relazione proficua tra la forma racconto e la forma cinema, tra l’esigenza narrativa di fornire dei connotati credibili alla storia e lo scopo della regia di dargli delle soluzioni visive congrue. Con l’adeguato senso dell’equilibrio, senza che l’una ne risulti sovraccaricata rispetto all’altra. Ad una regia complessa perché diversamente stratificata, segue un lineare sviluppo narrativo ; a delle ricercate sperimentazioni visive si accompagna una caratterizzazione dei personaggi con cui potersi tranquillamente immedesimare. Del Martin Eden di Jack London cambia l’ambientazione fisica dei luoghi e il background culturale del protagonista. Al posto della California, in luoghi che offrono agli occhi le vie di fuga del mare, siamo nei vicoli tentacolari di una Napoli “spersonalizzata” ; piuttosto che scrivere sul mare e i suoi “eroi” (in Italia “non abbiamo mai avuto una tradizione letteraria marinara”, hanno rimarcato più volte gli autori del film), il Martin Eden di Pietro Marcello guarda alla condizione operaia e contadina (legandosi così all’autoctona tradizione meridionalista). A rimanere immutati, invece, sono la spinta all’emancipazione borghese del giovane marinaio, il suo sogno di diventare uno scrittore di successo, la critica aspra all’individualismo, prodotto diretto del liberalismo economico, il velleitarismo dottrinario di certa cultura da salotto, i limiti congiunturali delle forze di sinistra, l’espandersi progressivo della cultura di massa, che funge da corollario allo sviluppo dell’editoria. Pietro Marcello si premunisce di rimarcarne l’attualità adottando come parametro di riferimento lo sguardo profetico riconosciuto al romanzo. Infatti, a fare da sfondo agli amori e agli ideali del suo Martin Eden, ci sono i fatti storici e i temi cruciali che hanno caratterizzato nel profondo tutta la prima metà del 900. Che appaiono in forma sintetica a disegnare un excursus storico affatto invasivo, capace di mutare di volta in volta le coordinate scenografiche del narrato senza intaccarne la coerenza spazio-temporale.

Architrave di tutta la storia è l’iniziazione alla vita borghese di Martin Eden, che dà il la, sia alla sua emancipazione intellettuale, sia al sorgere di sentimenti forti che chiedono di essere difesi con partecipata devozione. Se ne ricava una figura romantica colma di evidenti spigolosità caratteriali, in cui, l’amore per la dolce Elena che gli scalda il cuore non si concilia affatto con l’acquisita maturazione di una consapevole coscienza di classe. L’amore e la politica finiscono per intrecciare i rispettivi cammini, provocando delle scosse telluriche che solo la scoperta che nella poesia si possono sublimare entrambi i sentimenti riesce a calmare. L’opera di imborghesimento in Martin Eden produce un duplice effetto. Da un lato, egli scopre i limiti strutturali della morale borghese, il suo saper apparire come una sirena tentatrice che ti risucchia nel suo ventre rassicurante, intenta a conservare le rendite di posizioni acquisite. Ma altrettanto incapace di proseguire la sua rivoluzione liberale al fianco di chi soffre ancora la fame (“L’avvento del Socialismo rappresenta il necessario proseguimento della rivoluzione Liberale contro l’assolutismo regio”, teorizzava Carlo Rosselli). Dall’altro lato, l’emancipazione sociale che attua attraverso un’opera di alfabetizzazione intensiva, lo scopre tutt’altro che in pace con quel mondo operaio e contadino di cui vorrebbe esaltare la lotta. Lui scorge i limiti insolvibili del liberalismo economico nell’individualismo esasperato che genera, ma poi rischia di annullare l’individuo inserendolo in uno schema evolutivo che gli offre poche possibilità di autodeterminarsi. Il suo talento poetico, la sua rabbia feroce, gli impediscono di instaurare un rapporto dialettico proficuo con il divenire storico. Detto altrimenti, se Elena è partecipe dell’indole borghese intesa come quella forza emancipatrice che si ferma alle soglie di una forma che non deve mai diventare sostanza, capace, per sua intima natura, di cannibalizzare i talenti che genera spogliandoli di ogni impulso autenticamente rivoluzionario, Martin Eden incarna le forme della coscienza critica che migra nell’inconsistenza esperenziale, la buona teoria che non sa ancora farsi prassi adeguata. È quanto basta per far sì il Martin Eden tratteggiato da Pietro Marcello rimanga identico a quello che era nelle intenzioni dello statunitense Jack London. Una figura emblematica che attraverso la sua tensione morale si fa specchio delle basi teoriche e delle contraddizioni sociali che percorreranno tutto il 900 : il rapporto tra l’individuo e la società, la fiducia incondizionata nel mercantilismo economico (che solo nella crisi finanziaria del 1929 incontrerà una prima importante deroga), la presa di coscienza delle masse operaie (che trova il punto più alto nella Rivoluzione russa del 1917), il conflitto di classe (che a partire dagl’anni 20 produrrà la violenta reazione delle destre reazionarie). Ha una visione ampia e lungimirante il Martin Eden di Jack London, che Pietro Marcello ha modo di rispettare nella sua più stringente intimità caratteriale conservandone le stimmate di “eroe negativo” (come ha tenuto a sottolineare lo sceneggiatore Maurizio Braucci). Negativo perché irrisolto e irrisolto, non in quanto uomo preso a sé stante, idealista romantico avvinto dalle vertigini della letteratura, ma in relazione al suo essere un catalizzatore naturale delle cose del mondo, inevitabilmente portato a rifletterne gli eccessi ideologici, l’isolamento forzato dell’intellettuale, la confusione delle masse operaie. E usa la forma cinema a lui più congeniale, mischiando il "suo" realismo che rasenta il documentario (ne sono una prova i numerosi inserti documentari inseriti nel film, a cominciare dalle immagini di repertorio di Enrico Malatesta che aprono il film) con temerarie trovate registiche (quante volte il suo Martin Eden fugge in estemporanee sognanti rubate alla sua mente eccitata ?). Ma l’aspetto più interessante è certamente la marcata asimmetria tra lo spazio e il tempo, tra la caratterizzazione d’ambiente che avvolge e coinvolge gli umori dei personaggi e il tempo storico che ne fa da sfondo, che sembra seguire una vita tutta propria. Martin Eden rimane la proiezione fedele del suo tempo, lui parla e si muove come chi è totalmente immerso nel tema fondamentale (per Jack London) della critica all’individualismo borghese di inizio 900, mutuato dal pensiero Socialista e dalle teorie evoluzioniste di Herbert Spencer. Intanto però si susseguono senza soluzione di continuità, e senza neanche una conseguenzialità cronologica, gli echi (e vado a random) del biennio rosso (1919-20), la scissione di Livorno tra il PSI e PCI (1921), la marcia su Roma delle camicie nere (1922), il ventennio fascista (1922-43), lo scoppio della seconda guerra mondiale (1939), l’urbanizzazione selvaggia del dopoguerra che sconvolse la città di Napoli. Segni iconografici che intrecciano i fatti storici che percorrono l’Italia e le immagini d’archivio carpite dal documentarismo realistico, con un’estetica urbana e canora tipica degli anni 70-80 (si sentono canzoni degli Squallor e di Teresa De Sio, ad esempio). Un caleidoscopio metalinguistico che non disperde nella ripetuta frammentarietà temporale l’essenziale unità spaziale. Anzi, ad emergere con più forza e il carattere profetico del romanzo di Jack London, la constatazione empirica che la grande letteratura non smette mai di dire quello che voleva dire e non dice mai solo quello che intendeva dire. L’aspetto che più lo rende “attualizzabile” e che, evidentemente, rappresenta quanto è bastato all’autore casertano per volerci fare un film : Martin Eden, sempre nella maniera più o meno confusa che gli si confà, ha saputo incamminarsi lungo il “secolo breve” sapendone leggere i tristi presagi. Ecco, la forma letteraria e la forma cinema raggiungono un ottimo compromesso artistico. La bella storia del marinaio che si innamora ricambiato della ricca borghese e che, da analfabeta qual era, diventa uno scrittore di fama mondiale dopo aver conosciuto la potenza emancipatrice della conoscenza, accresce la sua matrice “fiabesca” attraverso una messinscena che non declassa mai il suo afflato poetico e visionario in un mero esercizio di stile. La forma cinema, affascinante, temeraria fino al limite di apparire gratuitamente astrusa e convenzionale, ha il pregio di fornire delle soluzioni visive adeguate ad una forma racconto che intendeva rinnovarsi pur rimanendo nella sua universale classicità.

Con questo film, Pietro Marcello non cede il passo alle regole mercantili del “mainstream”, rimane ostinatamente sé stesso, arrivando a fare la sua opera, al momento, più matura. Si può parlare di più padronanza nel calibrare le diverse fasi della materia cinema, di maggiori conoscenze del mezzo cinematografico, di un rapporto più diretto con l’apparato industriale (ricordiamo che è  praticamente la prima volta che dirige attori professionisti). Ma tutto questo non lo ha portato a cambiare strada, ad impedirgli di praticare (ad esempio) un montaggio impuro, imperfetto, sgranato, piuttosto che pretendere un controllo totale sulla messinscena per giungere ad un suo sviluppo più lineare e “addomesticato”. Sin da “Il passaggio della linea” del 2007, ha sempre fatto un cinema che tende ad equilibrare lo sguardo realista con i “trucchi” offerti dalla sperimentazione cinematografica, il coinvolgimento sentimentale con la sua migrazione in tonalità "favolistiche" sublimate nelle voci di dentro dei suoi personaggi. Sempre utilizzando una sorta di figura errante posta al di fuori di quest’epoca postmoderna e postideologica, che contribuisce a scompaginare la naturale relazione spazio-tempo e a far entrare in corto circuito il lineare rapporto cronologico tra passato, presente e futuro. Sempre dimostrando un rapporto viscerale con la materia filmata, con l’inclinazione a praticare un’antropologia per immagini ricavata dall’intreccio funzionale di più humus culturali, dalla volontà di far emergere gli odori e il calore dei luoghi rappresentati. Sempre con l’intenzione di voler legare le idee veicolate dai suoi film alle viscere della terra, per ricondurle alla loro dimensione più concreta, fattiva, carnale. Sempre oscillando tra la dimensione sognante e l'urgenza documentaria. Per questo film, ne sarebbero una prova l’insistere della regia con i vicoli “slabbrati” di Napoli, con l’indole istintivamente libertaria ricavata dal suond partenopeo e dall’ impurità dei luoghi, con le inflessioni dialettali “meridionaliste”, con le dolci epifanie catturate da frame sognanti e veristi insieme. Centrali, in tutto questo, diventano le figure della contadina Maria, che offre una sponda sicura al Martin Eden che sta facendo pratica di “decadentismo”, e Giulia, la sorella, fonte inesauribile dei suoi ricordi bambini.

Il Martin Eden di Pietro Marcello arriva fino alle soglie dei nostri giorni, ma si rapporta con il tempo storico con fare passivo, come chi cerca nelle fonti culturali di sempre l’origine di ogni nuova questione sociale. Questo accresce il suo senso di isolamento dal mondo, l’estranietà dalle sue origini proletarie, l’alienazione dalla sua stessa maturità culturale. Il finale offertoci da Pietro Marcello lo vede ricongiungersi alla sua fonte letteraria, mentre si consegna al mare come per andare incontro ad altri orizzonti e liberarsi dalla prigione che si è, inconsapevolmente, autoimposto. “Fu tutto quello che riuscì a capire : era sprofondato nell’oscurità. E nell’istante stesso in cui lo seppe, cessò di saperlo”.i

Per come è stata architettata la messinscena, che gioca con le sovrapposizioni incoerenti del tempo con lo spazio anche attraverso le tonalità cromatiche che gli si attribuiscono, meritano di essere ricordati i lavori alla fotografia di Alessandro Abate e Francesco Di Giacomo e alla scenografia di Luca Servino. Menzione speciale per la straordinaria prova d’attore di Luca Marinelli.

          

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