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Tre piani

Regia di Nanni Moretti vedi scheda film

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La recensione su Tre piani

di barabbovich
5 stelle

I tre piani del titolo sono quelli di un condominio della Roma bene (zona Piazza Mazzini, superfluo dirlo). Al primo piano abitano Lucio (Scamarcio) e Sara (Lietti), così indaffarati da spingersi a chiedere spesso di tenere la loro bambina per qualche ora a Giovanna (Bonaiuto) e Renato (Graziosi), loro anziani dirimpettai. Ma quando la piccola si perde in un bosco con Renato, Lucio si lascia ossessionare dall'idea che possa esserle accaduto qualcosa di orribile e medita vendetta. Al secondo piano vive Monica (Rohrwacher), puerpera con qualche psicosi latente e un marito (Giannini) impegnato costantemente all'estero. Al terzo piano abita una coppia di giudici, il cui figlio (Sperduti), dopo una notte brava, investe e uccide una donna, cercando vanamente la comprensione e la complicità dei genitori.
Il primo film che Moretti dirige senza partire da un proprio soggetto (che qui è lo sciatto e ambizioso romanzo omonimo, ambientato a Tel Aviv, di Eshkol Nevo, Neri Pozza Editore) è l'ennesimo e forse definitivo tassello di un cambio di rotta cominciato 20 anni fa con La stanza del figlio e andato sempre più verso un vicolo cieco di evidente senilità che fa registrare la tappa di Tre piani come il punto più basso della sua carriera. Degli anni gloriosi del cinema del regista romano rimane soltanto l'attitudine a sentenziare, qui propriamente cucita su misura indossando i panni di un giudice inflessibile. Già, perché la figura di Moretti è soltanto una delle tre figure paterne in difficoltà col proprio ruolo: se la sua rappresenta quella del super-io inflessibile, quella di Adriano Giannini è l'io che mette costantemente in primo piano le proprie urgenze lavorative e quella di Scamarcio è l'es ingovernabile di chi è accecato dalle proprie ossessioni, al punto di passare dal ruolo di potenziale co-vittima a quello del persecutore che dovrà rispondere in tribunale delle proprie azioni. Tre istanze intrapsichiche inchiodate a ruoli monodimensionali del tutto in contrasto con quelli giocati dai personaggi femminili, nobilitati dalla capacità di risolvere conflitti apparentemente inestricabili. E se sulla pagina questa lettura retriva e manichea dei ruoli di genere lascia spazio a una possibile chiusura del lettore, Moretti la risolve tutta a favore delle donne, anche quando queste sembrano disposte a dubbie macchinazioni per difendere un figlio omicida o ad abbandonare due bambini piccoli al proprio destino. Questa benevolenza pelosa si accompagna a uno script a teorema sui temi della colpa e della responsabilità e a una messa in scena piuttosto piatta, priva di quegli scarti improvvisi che ancora erano presenti in Habemus papam e persino in Mia madre. Del Moretti passato troviamo soltanto una bella scena di tango clandestino ambientato nel quartiere Della Vittoria: l'unico sussulto di un film che, nonostante i dieci anni che trascorrono nel racconto filmico, in un susseguirsi di nascite e morti, dimentica di reclutare qualche truccatore e spinge gli attori a una recitazione antinaturalistica che, come nel caso del pianto di Scamarcio, diventa persino goffa e imbarazzante.

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