Regia di Nanni Moretti vedi scheda film
Premettendo che considero Moretti uno dei massimi autori del nostro Paese, Tre piani mi è parso, oltreché penetrante e magistralmente orchestrato, complesso e stratificato: il racconto ad episodi intrecciati, tratto dall’omonimo romanzo di Eshkol Nevo, si instaura coerentemente nello sguardo morettiano, orientato all’esplorazione di criticità relative tanto al quotidiano quanto al subconscio. Il confronto realismo-antirealismo offre uno spaccato – lancinante – circa l’essere umani in una decadente Roma borghese: tre piani e tre appartamenti, tre nuclei familiari che corrispondono alle tre istanze freudiane della personalità: l’Es di Lucio (Riccardo Scamarcio), l’istinto primordiale e irrazionale; l’Io di Monica (Alba Rohrwacher), la mediazione fra autocontrollo e impulso; il Super Io di Vittorio (Nanni Moretti), la disciplina e il divieto dell’imposizione genitoriale che opprime Dora (Margherita Buy), spezzata da una crisi familiare che le nega la maternità. L’approccio è coscientemente anempatico e gelido, i personaggi distaccati, alla stregua di automi meccanici in balia di un teatrino che ne ha prosciugato lo spirito, condannandoli ad un limbo attraverso cui riflettere sulla responsabilità – e sulle conseguenze, individuali e pubbliche – delle proprie azioni (contestabili, fallimentari, eppure umane).
Nondimeno, guardando al triste momento storico con il quale si è dovuto confrontare, Tre piani è anche il tentativo (nonché un invito) di (ri)guardare al collettivo, agli effetti dell’isolamento sul singolo e sulla comunità, alle eredità per un futuro non poi così remoto.
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