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Ema

Regia di Pablo Larrain vedi scheda film

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La recensione su Ema

di SamP21
8 stelle

 

La Trama in breve

Valparaíso. Ema, una giovane ballerina, divorzia da Gastón, il direttore della compagnia per cui si esibisce, incapace di superare il senso di colpa verso Polo, il bambino che avevano adottato per sopperire alla sterilità di Gastón e che hanno poi riportato in orfanotrofio in seguito a una tragedia causata dalla piromania del piccolo.

 

Presentato alla scorsa edizione del Festival di Venezia, Ema è un film magmatico, destrutturato, e assolutamente sperimentale. Un cambio di registro, questo di Larraín, improvviso, ma pur sempre vicino alla sua idea di cinema, in cui immagini bellissime assumono più significati, forme e concetti.

 

Siamo nel Cile moderno, la dittatura, la repressione e la Storia non sono argomento di disquisizione in questo film, che ti avvolge con le sue immagini e la forza di una regia capace di seguire fino in fondo le avventure psico-fisico e sessuali della protagonista.

Il rapporto di coppia, il matrimonio, l’essere madre e genitore, la sessualità, l’orientamento sessuale, l’arte; tutti temi che il film tratta e che si sviluppano dopo un inizio che non ha soste, dal ritmo vorticoso e insinuante che ci porta nella storia di questa donna a confronto con la sua identità e la sua volontà di essere madre.

 

Ema è la sensualità fatta persona, è conturbante, divorante, è anche una persona libera, anticonformista in un Cile che, come il mondo intero, deve trovare la sua nuova identità, anche artistica, lontano da quello che fu e non sarà più.

Larraín sperimenta, questa volta senza l’uso ammaliante della pellicola, più stili e velocità, riprende le dinamiche del videoclip nei momenti di ballo e nelle coreografie oltre che nei momenti sessuali, dove la musica, presenza assoluta nel cinema del maestro cileno, prende il sopravvento unendosi in maniera eccezionale alle immagini e formando una fotografia visivamente ineccepibile, piena di significati e sentimenti.

 

Un dramma destrutturato, senza contorni e confini, dove la storia emerge a poco a poco e le dinamiche si mescolano fino al finale che chiarisce il tutto in maniera più nitida. Nel mezzo del dramma c’è una scena eclatante, uno scontro tra Gaston ed una ballerina, in cui uno spiega cos’è per lui l’arte, in questo caso attraverso il ballo, il modo per mostrare alle persone tematiche attuali, imponenti, scabrose, per farli riflettere, e lei risponde che il loro ballo è vita, il loro ballo è movimento, sessualità, ecco in questo incontro-scontro c’è tutto il cinema di Larraín, l’arte di illuminare il passato e il presente di un paese, mostrandolo in modo politico, sociale, ma anche attraverso le armi uniche e inarrestabile del cinema: una fotografia magnetica che prende tutti i colori della strada, la regia fatta di rallenty, di un’enfatica visionarietà e di montaggio.

 

Il regista riesce nei 110 minuti del film a mostrarci anche le nuove generazioni, non solo quelle cilene, in cerca di un’identità anche ma non solo sessuale, in cerca di un modo di vita da seguire che sia libero, che sia in discontinuità con quello conforme di molti dei loro genitori;  nel farlo affronta il tema della coppia alle prese con il dolore, e con gli errori commessi.

Ema è libera in questo senso, si innamora, gode e vive la sua sessualità a pieno, è un essere conturbante a volte quasi malefico, del resto lo dice proprio lei in una scena: “io sono male”.

 

Le emozioni si innescano una dentro l’altra in questo vortice che cattura tutti i personaggi verso Ema e allo stesso tempo cattura lo spettatore, che rimane incantato, infastidito, ammaliato da immagini vibranti; ma anche il testo e le parole hanno un enorme significato, nella visione di una donna libera, forte, scevra dai vincoli sociali di una società che deve cambiare. È un Cile caotico, dove Ema si diverte, in preda ad un istinto vitale a bruciare oggetti, macchine, ad incendiare la consuetudine, la normalità di un mondo che vive di conformità.

 

Le parole sono importanti e a ricordarcelo c’è una scena che da sola basterebbe la visione (al cinema!) del film: quando l’assistente sociale parla con i due protagonisti che hanno riportato il figlio adottivo, gli dice chiaramente che senza di lei due degenerati come loro non avrebbero mai ottenuto un figlio, due artisti che parlano di bisessualità, di violenza, due che la società non accetta e non vuole accettare. Ecco, è in questo discorso, così violentemente veritiero, che il regista ci mostra come l’arte debba essere una forza prorompente, debba mostrare una via diversa, illuminare percorsi che gli altri, forse, non vedono; invita a riflettere su come una certa società perbenista ancora non riesca a concepire realtà diverse da quelle che propone come modello.

 

Il film invece le mostra tutte, perché di conforme ad una visione vecchia, morale, arretrata, non c’è nessuno nel film.

In questa nuova pelle, fatta di videoclip, montaggio frenetico, rallenty e di una storia più personale, in definitiva Larraín si ritrova diverso, ma non meno politico, non meno importante.

 

Un film da vedere assolutamente.

 

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