Regia di Roy Andersson vedi scheda film
Piu' forma che sostanza di questa opera più vicina all'arte figurativa che a quella inventata dai fratelli Lumiere'.
Un insieme continuo di varia umanita' con struttura ad episodi (brevi) coadiuvati da un sottofondo musicale, un vero e proprio 'tappeto catartico', completato da una voce fuori campo che sostituisce i titoli dei vari capitoli. Senza una logica cronologica e una definita connotazione temporale, comunque si ha l'impressione di poter datare i vari siparietti negli anni 50 o 60, Anderson 'congela' i suoi personaggi all'interno di una pinacoteca spuria di immagini, con una certa dose di humour e non sense che tende a destabilizzare. Il regista svedese rivendica cosi' la propria cifra stilistica autorelegandosi nel novero dei registi ostici ed a proprio agio nei palinsesti di qualunque mostra del cinema ma lontano dai gusti del medio fruitore di cinema. Premiato con l'orso d'argento a Venezia 19, denota uno stile ed una vera e propria originale poetica, mettendo al centro l'uomo comune e il sul vissuto ma il valore aggiunto, che va sottolineato,risulta l'estetica delle immagini che costruisce come affreschi in movimento, facendo largo uso di camera fissa, dove concentra le proprie forze sulla ricerca della pulizia e dell'essenzialita' di questi 'quadri' ricchi di colori pastello, di luce e di volti incipriati, mischiando continuamente le carte, variando i toni delle sequenze a cui assistiamo.
Onestamente pur apprezzando lo stile non consiglierei la visione di questo 'Sulla infinitezza' che reputo un eccessivo esempio di cinema ad uso e consumo degli addetti ai lavori piu' che rivolto ai fruitori ultimi: i comuni spettatori del cinema in sala.
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