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Il grande Lebowski

Regia di Joel Coen vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il grande Lebowski

di omero sala
9 stelle

 

Los Angeles, 1981. 

Jeff Lebowski detto Drugo (Jeff Bridges), è un ex hippie molto fricchettone e un po’ imbolsito, un sopravvissuto agli anni ’70, un trasandato asociale che va in giro con i calzoncini corti (ma lo vediamo anche gironzolare sciatto, in accappatoio, dentro un supermercato). 

Vive alla giornata, passa il tempo nell’inedia più totale, beve, si fa qualche spinello, gioca a bowling, frequenta amici più squinternati di lui, se ne strafotte di tutti, così, come stile di vita, per distrazione, non per misantropia. 

Ma un giorno gli capitano in casa due balordi mandati da Jackie Treehorn (Ben Gazzara) uomo potente dell’industria del porno; i due, ingannati dall’omonimia con un altro Jeffrey Lebowski (un miliardario dal quale pretendono l’estinzione dei debiti contratti dalla giovane moglie) lo minacciano, gli ficcano la testa nel cesso e osano perfino pisciargli sul tappeto.

Il gesto sconvolge Drugo che, la sera dopo, si sfoga con i suoi due fedelissimi amici del bowling: il grosso Walter (John Goodman), un veterano segnato dalla guerra del Vietnam, attaccabrighe, reazionario e giustizialista e lo sfasato logorroico Donny che fa solo domande fuori contesto (Steve Buscemi). 

La sala bowling, per gli stravaganti amici, è il luogo attorno al quale ruotano quotidianamente: chiesa, confessionale, porto sicuro in cui rifugiarsi dai pericoli, zona franca in cui progettare incursioni, nido in cui risollevarsi dopo un lutto (e l’esclamazione “Andiamo al bowling!” é una specie di mantra fra i bizzarri adepti). 

L’impetuoso Walter sobilla e alimenta la sete di risarcimento del pigro Drugo che parte per la sua vendetta, ma non alla caccia dei due mascalzoni che lo hanno malmenato, bensì alla ricerca del suo omonimo per pretendere la riparazione del danno - il tappeto! - patito a causa dello scambio di persona (un espediente drammaturgico che ha più di duemila anni).

A casa del magnate, il “big” Lebowski, che è un invalido inchiodato su una sedia a rotelle, il nostro Lebowski si sente un pesce fuor d’acqua, spaurito dal lusso, intimidito dal solenne maggiordomo Brandt (Philip Seymour Hoffman), schiacciato dalla tracotanza del miliardario e spiazzato dalla perversa giovane moglie, Bunny, la scialaquatrice.

[Tutta la scena, anche nei dettagli, ricalca caricaturalmente un passaggio analogo de “Il grande sonno” del 1946 di Howard Hawk a cui i Coen alludono (anche nella scelta del “grande” nel titolo del film tratto da Chandler); la parodia appare particolarmente paradossale ed esilarante, considerata la scimmiottatura dell’austero Bogart fatta dal nostro accidioso pasticcione e la distanza abissale fra la seducente raffinatezza della Bacall e la sguaiata volgarità della viziosa ninfetta].

 

Jeff Bridges

Il grande Lebowski (1998): Jeff Bridges

 

Dopo qualche giorno l’intimidito e frastornato Drugo viene ricontattato dal maggiordomo del grande Lebowski a cui, nel frattempo, è sparita la moglie: il magnate lo incarica di cercare quelli che ritiene possano essere i rapitori (forse gli stessi che hanno aggredito Drugo in casa e gli hanno pisciato sul tappeto). Drugo accetta e, istigato - quasi costretto - da Walter, prepara un piano per fregare sia i rapitori che il magnate.

La faccenda si complica: ad un certo punto entrano in gioco altri personaggi: la figlia del grande Lebowski (Julien Moore) con una sua cricca di amici (una specie di setta di nichilisti tedeschi); il produttore di film porno (che pretende il saldo dei debiti di Bonny, che pare sia una attricetta sua complice); uno studente ignaro di tutto.  

La trama si ingarbuglia e la grottesca apocalisse rotola via come la palla di bowling (e la sua strampalata soggettiva) o come il cespuglio dell’incipit che parte dal deserto, attraversa la città e arriva fino al mare. Non si capisce più se il rapimento è vero o fasullo, né chi l’abbia progettato o inventato, o chi ricatti, chi sia il ricattato, chi preda e chi aguzzino, chi coinvolto e chi incastrato per caso. 

È il surreale trionfo dell’assurdo, il tripudio del nonsense, l’apoteosi anarchica della stupidità che raggiunge il suo culmine nella sensazionale scena dello spargimento delle ceneri di Donny sulle sponde dell’oceano.

È la lucida - cinica - rappresentazione del nostro mondo di svitati, della nostra natura disorientata e in balia del vento, delle nostre confusioni più o meno consapevoli, delle nostre inquietudini, dei nostri disagi espressi o repressi.

È il resoconto, ovviamente convulso, del caos che ci governa e condiziona le nostre vite, da dentro - noi complici - e da fuori - noi vittime; è la narrazione della babele che intreccia i nostri giorni con sottotrame comiche e tragiche; è la fotografia delle nostre esistenze disadattate fatta di un’amalgama di nevrosi e paranoie. 

 

I fratelli Coen sembrano dirci che siamo come i birilli del bowling, sempre pronti ad essere travolti dal destino (o, se ci si vuole credere, dal capriccio di entità imperscrutabili e lontane, indifferenti e sconosciute, inaccessibili e sorde) e sempre condannati, sempre come birilli, a rimetterci in piedi, esposti e rassegnati ad altri colpi. 

Nati per quello.

 

Jeff Bridges, John Goodman

Il grande Lebowski (1998): Jeff Bridges, John Goodman

 

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