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La paura mangia l'anima

Regia di Rainer Werner Fassbinder vedi scheda film

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La recensione su La paura mangia l'anima

di LorCio
7 stelle

Notoriamente a Fassbinder piaceva Douglas Sirk. Dopotutto, chiunque voglia addentrarsi nelle pericolose strade del mélo deve fare i conti con l’autore di Come le foglie al vento. Di quel modo di concepire il genere, il goloso Fassbinder si appropria dell’adeguato uso della fotografia – dunque dei colori. Il contrasto tra sostanza e forma ha una sua funzionalità ben precisa: la storia non è esattamente allegra (per usare un eufenismo), eppure le tinte cromatiche impiegate si muovono su registri luminosi, tutti indirizzati verso il rosso, il giallo, il viola… Insomma, c’è la vitalità che si esprime nei suoi termini più figurativamente lampanti in un’atmosfera dimessa, fragile, silenziosa. È la contraddizione (favolosa) più trasparente che Fassbinder ci offre in questa sorta di remake (più che un remake è una versione libera) del Secondo amore sirkiano (poi preso a modello anche da Todd Haynes in Lontano dal paradiso). Il motivo per cui l’autore tedesco venne avvolto da quella storia malinconica è semplice: c’è una vena disperata e sottile che permette di parlare di qualcosa di ben più ampio rispetto ad un banale amore contrastato. C’è la critica sociale, indiscutibile, ad una Germania involgarita ed arrabbiata, razzista e classista. Le convenzioni non si abbattono facilmente, le apparenze contano più delle esistenze, i sentimenti devono sopprimere per far tacere le chiacchiere.

 

È un film sulla solitudine, difatti è l’incontro felice di due solitudini che si contemplano e trovano l’uno nell’altra le proprie ragioni d’esistere. L’amore è al centro della scena, violento ed inquieto, ruvido ed appassionato, testardo e tenero. È un ballo impacciato e dolcissimo sulle note di una canzone incomprensibile (perché enigmatica), una doccia nuda sbirciata dallo specchio del bagno, un pranzo semplice, un aperitivo bagnato ad un locale all’aperto, una carezza ed una stretta di mani in un letto d’ospedale. È dolente, sofferto, mangia l’anima proprio come la paura strugge l’esistenza. Di ogni personaggio, di quegli spettatori sensibili. La paura ha accenti diversi a seconda di ognuno (la protagonista ha paura degli altri e del loro giudizio – ma poi si riscatta; lui ha paura di far cadere lei nella depressione, ma anche di tradire la sua fiducia – e viene vinto, dalla paura; gli alti hanno paura che lo straniero si appropri di ciò che loro, come una funesta invasione di campo usurpatrice), ed impera sovrana assieme all’amore, contraltare neppure tanto simmetrico, in quanto l’amore è paura di deludere il prossimo e di non essere all’altezza. Scavalca le emozioni più superficiali, scava nel profondo mettendo alla prova le suggestioni visive e psicologiche, commuove. Che mèlo.

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