Regia di Chloé Zhao vedi scheda film
L'America post recessione del 2008, è una grande "ghost town", proprio come Empire, nome non scelto a caso, cittadina di poche case, nata intorno ad una fabbrica e scomparsa insieme a lei. Da qui si muove, in un van, Fern, una brava Frances McDormand, alla ricerca di un lavoro, che trova come stagionale, muovendosi qui e là per l'ovest americano: Nebraska, South Dakota, Arizona, California. Il nomadismo insito nella natura degli americani visto come mezzo di sostentamento e, in secondo luogo, come libertà e il ritrovare sè stessi. Una caccia al bisonte (il lavoro) declinata agli anni zero, al grande declino dell'America. La cinese Zhao, già autrice di film da grandi spazi, "heartland movies", ci racconta tutto questo, con uno stile rarefatto e spesso furbescamente sentimentale, nutrendo le nostre emozioni primarie a forchettate di paesaggi americani, che spesso paiono l'unica cosa sincera, in un film circolare (da Amazon a Amazon, non a caso), ma fine a sè stesso, con un pugno di frasi messe al punto giusto, tanta noia, e, come già scritto, sentimentalismi vari. Il tutto condito con il pianoforte di Einaudi, uno che di poca sostanza se ne intende. Un lavoro superficiale, che ciuccia dalla tetta dell'America con grande furbizia: un film perfetto per gli Oscar imminenti (6 candidature), con quel suo retrogusto di buono, dove tutti si vogliono bene e dove tutti s'illanguidiscono in malinconie, stagliati lungo un qualsivoglia tramonto. Un po' "Una Storia Vera", un po' "Nebraska", un po' "American Folk", ma senza averne sangue e bellezza.
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