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Totò che visse due volte

Regia di Daniele Ciprì, Franco Maresco vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Totò che visse due volte

di ed wood
8 stelle

Uno dei pochi (eppur troppi) film italiani processati per vilipendio alla religione, "Totò che visse due volte" rappresentò un caso quando uscì, al tramonto del secondo millennio, oramai quasi un ventennio fa. Suscitò scandalo ed aspre polemiche. C'era chi lo definiva il miglior film italiano del decennio e chi una mera appendice di "Cinico TV". Cosa resta dell'opera di Ciprì e Maresco a 17 anni di distanza? A mio parere si tratta di un'opera profetica, un film terminale su una civiltà giunta al capolinea. L'universo (dis)umano oggetto del film altro non è che una fantasia espressionista sulla società devoluta dopo decennio di olocausto culturale. Dopo che il cinema ha esaurito ogni sua spinta propositiva (gli anni 90 sono stati orrendi per il cinema nostrano), cannibalizzato da una televisione sempre più volgare e sempre più cerebrolesa, a Ciprì e Maresco non restava che sguazzare come maiali fra i maleodoranti rifiuti di questa collassata civiltà. E' la risposta estrema, definitiva, la "final solution" al vuoto creato dal primo ventennio berlusconiano, quello eminentemente televisivo. Il rovescio della medaglia di 20 anni di immagini patinate ed oscene non più essere altro che immagini altrettanto oscene, ma privati di colori, lustrini, donne procaci e ottimismo forzato. 

 
 
Il film, diviso in tre parti, e sapientemente illuminato da Bigazzi, è una parafrasi blasfema della vicenda di Gesù Cristo e dei due ladroni, ambientata in una lugubre periferia palermitana, dove non ci sono donne, non c'è cultura, non ci sono sentimenti. Solo impulsi primari, come il sesso compulsivo, del tutto privato di eros e passione (al limite ribaltato in farsa, come nel secondo episodio). E il culto feticista degli oggetti (un ciondolino e un anello diventano l'oggetto del desiderio dei due ladroni) porta a violare la sacralità delle icone religiose e dei corpi. La morte è un altro leitmoviv (lo spirito della madre defunta, nel primo episodio; il cadavere attorno a cui avviene la veglia, nel secondo); maiali e topi fanno da metafora animale alle differenti sfumature di umana bestialità (l'erotomania nel primo episodio e l'opportunismo nel secondo). La riuscita è altalenante. La prima parte è convincente, nella sua rappresentazione di un universo sterile (sono tutti maschi), incolto e ossessionato dalle parti basse del corpo, quasi una anticipazione dell'homo eroticus pornodipendente del nuovo millennio; ed è pure apprezzabile per la sua laconicità e per gli accenti bunueliani del finale iconoclasta. La seconda, invece, è il punto debole del film: troppo parlata, troppo prolissa, troppo involuta nel continuo susseguirsi di flashbacks.
 
 
 
La terza e ultima sezione, che propone una irriverente versione sottoproletaria della vita di Cristo (qui rappresentato da un vecchiaccio) che include Lazzaro, Giuda e tanti altri, è un chiaro esempio di cinema post-pasoliniano. Il maestro friulano, via Citti, resta il principale referente dell'opera, per ovvi motivi. Ma attenzione: sono cambiate molte cose dai tempi di Pasolini. Quest'ultimo affrontava una società consumista che si stava avviando piano piano verso un baratro culturale, ma ne era ancora fondamentalmente al riparo. Ciprì e Maresco arrivano dopo il diluvio, quando oramai la volgarità mediatica e sociale è divenuta endemica. E quindi, oltre ad assecondare questa trivialità con soluzioni volutamente becere, i due registi siciliani rivelano una fondamentale differenza rispetto al magistero pasoliniano. Se infatti per PPP, l'accostamento di sacro e profano serviva per restituire una sorta di "sacralità laica" (ossia di "valore" in senso umanista, razionalista) al più diseredato degli accattoni, in Ciprì e Maresco questa procedura non ha più alcuna forza catartica: lo scemo del villaggio che chiava con una statua della Madonna non è una bestemmia fine a se stessa nè un tentativo di elevare a "sacra" l'esistenza di quel poveretto; si tratta invece della constatazione, disperata ed agghiacciante, della impossibilità di una qualsiasi forma di sacralità, in una società giunta allo stremo morale, a forza di consumismo,  feticismo e barbarie. E allora il referente principale di quest'opera, più che il Vangelo secondo Matteo, pare essere Salò. Una Salò senza più padroni però, poichè non ce n'è più bisogno.  
 
 
 
 
Questo Satantango dei poveri, dove il Cristo farlocco diviene vittima della mafia e del suo boss novello Pilato, ha senza dubbio lasciato un segno nel momento in cui le delusioni del XX secolo stavano per cedere il passo alle inquietudini del XXI. 
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