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Totò che visse due volte

Regia di Daniele Ciprì, Franco Maresco vedi scheda film

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La recensione su Totò che visse due volte

di carlos brigante
8 stelle

Si fossero chiamati Ciprinsky e Marescov si griderebbe ad una nuova avanguardia nel panorama post-surrealista di una qualche scuola dell'est europeo. Invece, ci troviamo davanti a due “poveri” siciliani (usciti da Cinico Tv) che per molti cultori dell'esterofila a tutti i costi non posseggono quell'appeal che altrimenti avrebbero. Fortunatamente negli ultimi tempi il vento è cambiato e gli estimatori che si nutrono di pane e cinema hanno tributato loro i giusti onori.

 

Sin dalle prime sequenze i due registi ribadiscono in maniera esplicita la strada che vogliono percorrere: ripartire da dove avevano iniziato e cioè dal loro primo lungometraggio, “Lo zio di Brooklyn”. Nella stanza buia di un cinema le immagini dell'asino inchiappettato da un uomo trasandato e la figura di San Polifemo, intenta a togliersi un occhio, ci introducono nelle “periferie aliene” di una Sicilia post-industriale, infestata dai ratti, dai maiali e popolata da freaks sdentati mossi da continui quanto meccanici istinti sessuali. Le donne non esistono; quelle che ci sono, sono uomini travestiti in mezzo ad un'umanità desolata e desolante in cui anche la religione è distorta, materialista, volgare. Non importa se non c'è più un messia da crocifiggere. Di poveri cristi che possono sostituirlo ce ne sono a bizzeffe; il primo che passa va bene.

Ciprì e Maresco ci portano in luoghi fuori dal centro; periferie umane immerse nel lerciume di una società in preda al gioco degli istinti. Con sguardo impietoso e beffardo, ma senza alcun intento di condanna, si limitano ad osservare con nonchalance questi deserti (proto)metropolitani disertati dalla civiltà.

 

Pasolini e Bunuel vengono alla mente a più riprese: l'irriverente Golgota de “La ricotta”; le desolate periferie dimenticate di “Accattone” o “Mamma Roma”; l'aria impregnata di merda di “Salò”; la blasfemia dirompente e il nero sarcasmo del Bunuel de “L'age d'or” o de “La via lattea” e perché no il “surrealismo realista” de Las Hurdes”.

In “Totò che visse due volte”, però, tutto risulta amplificato in quegli spazi “lucidamente allucinati” (dal bianco e nero di Bigazzi), racchiusi dentro una spessa cornice grottesca e attraversati da un dirompente nichilismo di fondo.

Se ne “Un chien andalou” il buon Don Luis ci indicava col taglio dell'occhio una nuova strada al “vedere”; con Ciprì e Maresco l'occhio dello spettatore/San Polifemo viene strappato via del tutto... tanto per ribadire il concetto.

 

Irriverente, corrosivo, anarcoide...

Cosa cambierei

8,5 ma la quinta stella è più che una tentazione!

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