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Tornare a vincere

Regia di Gavin O'Connor vedi scheda film

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La recensione su Tornare a vincere

di Furetto60
7 stelle

Dramma sportivo. Genere inflazionato, ma la prova attoriale di Ben Affleck è superlativa

Jack Cunningham è stato un campione di basket, della sua squadra del liceo, un playmaker di classe,  conteso da università prestigiose, pronte ad offrigli borse di studio pur di vederlo indossare una maglia con i colori del loro ateneo. Ma Jack, alla vigilia di un futuro promettente, che sembrava già tracciato, molla tutto a causa dell’atteggiamento del padre, assente e distaccato.  Separato e reduce da un lutto terribile, il peggiore che possa capitare: la perdita di un figlio, si arrangia lavorando come carpentiere in un cantiere edile e annega la sua frustrazione nell'alcool, assiduo frequentatore di un bar dove torna ogni sera per ubriacarsi, fino a non riuscire a reggersi in piedi. Presumibilmente, è stato il motivo del suo divorzio e di ogni possibilità di rinascita. Quando fa visita alla sorella e alla madre ai pranzi di famiglia, è considerato con sufficiente benevolenza, come lo zio sbandato e alcolizzato, immaturo e da tenere d’occhio. Un giorno però, il rettore del suo vecchio liceo, lo contatta e gli chiede di allenare la squadra della scuola, una banda di dilettanti allo sbaraglio, Jack dopo qualche reticenza, finisce per accettare l’incarico. Il plesso scolastico è di matrice cattolica e i suoi modi e il linguaggio scurrile non sono esattamente in linea con le consuetudini dell’istituto. Tuttavia i dirigenti sorvolano su queste leggerezze, perché al di là di tutto, Jack crede in quello che fa e riesce a trasmettere la sua passione per uno sport, che da tempo non esercitava, trovando in questo lavoro e nell’affetto per quei ragazzi, la chiave per dare una sterzata alla sua vita e anche per salvare la stagione della squadra. Una mattina però fa tardi all’allenamento, dopo una colossale sbornia presa la sera prima. Mentre il rettore aveva lasciato correre su tante violazioni, stavolta non può transigere, cosi Jack viene allontanato. La squadra però adesso ha personalità e una fisionomia ben delineata e malgrado l’assenza del coach, vince per conto e nel nome del suo allenatore. La retorica sportiva, basata sul sudore e la fatica, sullo sforzo individuale e di squadra, su un mangiare la polvere o un trionfare gloriosamente, tira sempre, cinematograficamente parlando, riesce sempre a coinvolgere ed esaltare lo spettatore, sul piano emotivo. A Hollywood lo sanno troppo bene e cavalcano spesso e volentieri queste storie. L’allenatore che cresce e si redime insieme ai ragazzi, provando a voltare pagina portandoli alla vittoria è trita e ritrita. Se da una parte si constata la scarsa originalità di idee, dall’altra va detto che in questo film Affleck giganteggia. La sua è una performance sofferta, sentita, quasi una testimonianza al di qua dello schermo di quel sé stesso che tenta faticosamente di lasciarsi alle spalle, una delle interpretazioni più intime e realistiche: il rapporto drammatico con la dipendenza, le fragilità, la difficoltà a relazionarsi con il mondo. L'attore ha guardato e scavato dentro se stesso, facendo emergere, aspetti cupi e dolorosi della sua vita, compiendo una vera e propria catarsi davanti alla macchina da presa,  caricandosi l'intero film sulle sue spalle, con tutto il suo peso, ne comunica la fatica, ma anche lo spirito determinato a cambiare registro, perché i problemi dell’attore con l’alcol, e il conto che gli ha imposto nella vita e nel lavoro, sono notizie note ai cinefili, notevole è lo sforzo dell’attore, nell’impersonare la figura di Jack, senza mai cedere al pietismo, rimanendo sempre centrato, capace di elaborare i sentimenti, sia nei silenzi, che nelle esplosioni rabbiose, nei gesti e nelle movenze del suo corpo appesantito. La macchina da presa del regista, indugia spietatamente sul corpo, in apparenza vincente, che traballa sotto il peso di insicurezze, senso di inadeguatezza, debolezze, un corpo che diventa una prigione: così alto e massiccio da sembrare sempre inadeguato in ogni inquadratura. Stretto in poltrone, in minuscole docce, seduto dietro scrivanie troppo piccole. Per rinnegare quel corpo, il protagonista lo corrompe, ad ogni bevuta, gonfiandolo, appesantendolo, rendendolo instabile. La storia di Jack Cunningham è raccontata in maniera paradigmatica, eppure mai noiosa, nel rispetto di tutte le tappe obbligate della parabola di riscatto del suo protagonista, aiutato da una fotografia realistica, la telecamera sempre ad altezza uomo. Film misurato nella scrittura, così come nella regia, che non sconfina mai nella retorica. Sport e vita si sovrappongono e per quei ragazzi, le lezioni servono anche fuori dal campo di gioco. Ma "Tornare a vincere" non segue il canovaccio classico dei film sportivi, in cui la vittoria finale è l’ideale punto di approdo del racconto, O’Connor  esprime un altro concetto.Il lieto fine canonico, lascia il posto alla consapevolezza, che il riscatto è una strada in salita, che va conquistata giorno per giorno, in cui servono fatica, tempo, sacrificio, tenacia.L'atmosfera del film non è allegra, ma pesante e disperata. Il messaggio che trasmette, trascende la vittoria sul campo, che conta poco. Ciò che invece conta è affrontare, ogni giorno, le difficoltà che la vita inevitabilmente ci pone davanti. A tutti prima o poi capitano piccole o grandi tragedie, tutti provano dolore, ma non tutti reagiscono annegando nell’alcol o in qualsiasi altra dipendenza. In questo Jack, nonostante le sue abilità, è il più perdente di tutti. Torna alla memoria la frase di Rocky Balboa, al secolo Sylvester Stallone: "Nessuno può colpire duro come fa la vita, perciò andando avanti non è importante come colpisci, l'importante è come sai resistere ai colpi, come incassi e, se finisci al tappeto, hai la forza di rialzarti. Così sei un vincente!"

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