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Lo spietato

Regia di Renato De Maria vedi scheda film

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La recensione su Lo spietato

di barabbovich
6 stelle

Lo sapete qual è la regione d'Italia dove si sono radicate di più le 'ndrine calabresi? La Calabria Saudita? No, sbagliato. È la Lombardia. E questo almeno dagli anni '80 - '90 del Novecento. E proprio del primo pentito di mafia delle cosche calabresi trasferitesi per fare grossi affari col mattone e con sostanze che somigliano tanto al borotalco parla questo film diretto da Renato De Maria. Il regista varesotto - che deve essersi appassionato al tema, visto che il suo film precedente era un'antologia del peggio del crimine italiano in forma di docu-fiction, intitolato, per l'appunto, Italian gangsters - si limita al compito facile facile che gli viene dalla distribuzione Netflix per palati disposti a qualsiasi McMovie. Non a caso la vicenda di Santo Russo (un intonato Scamarcio, guascone in bilico tra vernacolo lombardo e pugliese) che, ancora adolescente, arriva nella periferia meneghina a bordo di una fiat 600 guidata da una padre tiranno che preferisce vederlo al servizio della mala pur di non averlo in casa, si snoda sul più prevedibile degli sviluppi narrativi: racconto di formazione giovanile in ampio flashback, con riformatorio e inevitabili cattive compagnie annesse, servizio dal capocosca più in vista, scalata ai vertici della mala. Il tutto accompagnato da un matrimonio con una devotissima (in tutti i sensi) moglie, che a lui regala due figli e a noi la solita faccia incredibilmente inespressiva di Sara Serraiocco (è un talento riuscire a non cambiare mai mutria per un intero film), e un intreccio ben più focoso con una sofisticata ragazza francese (Valentine Payen). Un po' di ritmo c'è, ma lo sguardo - che pure si rivolge ai poliziotteschi anni '70 - è banale come già lo fu in occasione de La prima linea, esordio della coppia Scamarcio-De Maria sul grande schermo.

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