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Anonimo veneziano

Regia di Enrico Maria Salerno vedi scheda film

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La recensione su Anonimo veneziano

di Lehava
6 stelle

Ciò che stava suonando, non era solo dolore per la morte di un uomo, era disperata rassegnazione per la morte d'una città e forse di tutto ciò che è vissuto. In una desolazione tanto vasta e perfetta, non c'è posto per piccole storie personali (G. Berto "Anonimo Veneziano" 1976)

 

È il 1966, a Cortina Enrico Maria Salerno propone a Giuseppe Berto, assiduo frequentatore della stazione sciistica, coacervo di belle donne e e mondanità, di scrivere la sceneggiatura per un film che egli stesso vuole dirigere: una storia d’amore nella decadente Venezia fra un marito e una moglie da tempo separati. L'autore accetta buttando giù, nei mesi a venire, una bozza di dialoghi. La sua collaborazione con il cinema era di lunga data: affannosa - per le tempistiche strette ed inesorabili - ma necessaria per il sostentamente quotidiano. Enrico Maria Salerno non è uno a cui dir di no sia facile: un anno prima aveva lavorato, tra gli altri, in "Io la conoscevo bene" e "Casanova 70". Il 1966 vide l'uscita de "L'Armata Brancaleone", il 1969 de "Nell'Anno del Signore" ed il 1970 de "L'uccello dalle piume di cristallo". Nel mezzo "Le Troiane" per la TV, trasmesse nel febbraio 1967 e "La famiglia Benvenuti" 1968-1969. Solo per citare i lavori più famosi e riusciti: che a scorrere la sua carriera, sul serio, si viene presi da un moto di ammirazione e fors'anche di sconforto (difficile distinguere il confine tra l'indubbio talento e le ampie possibilità che il periodo ed i mezzi allora permettevano, forse, più che oggi). Berto pregusta il successo, forse, gli incassi. Sente il progetto nelle sue corde, ma gli è chiaro fin da subito che, se cinema deve essere, i dialoghi ne sarebbero stati la sceneggiatura stessa: ...un solo, lungo dialogo tra i due personaggi. Nasce un copione, più o meno. Ma trovare i soldi per girare risulta, sorprendentemente, impresa difficile: alla fine Enrico Maria Salerno riesce a convincere il produttore Turi Vasile che impone però attori di cassetta, assai più giovani rispetto a quelli che lo scrittore si era immaginati. Convinto dalla bellezza della Bolkan e dall’oratoria della produttrice Marina Cicogna, lo scrittore aggiusta parecchi passaggi. A quel punto si è pronti per il primo ciak: la storia prevede che la lunga passeggiata dei protagonisti avvenga in una Venezia grigia e brumosa. Solo che, tra un problema e l'altro, Salerno si ritrova all’inizio della primavera. Marcello Gatti, direttore della fotografia, è così costretto a creare finte nebbie con dei veli grandi dieci metri, a bagnare continuamente i masegni, e a sovraesporre il negativo creando così la sensazione di gelo e morte. Fortunosamente "Anonimo Veneziano" esce in poche sale il 30 settembre 1970. Due mesi dopo, il 1 dicembre 1970, viene promulgata la famosa legge n. 898/70 "Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio": il divorzio è realtà anche in Italia.

Vittorio Salerno, il fratello di Enrico, dichiarerà in un’intervista: Vasile mi disse che la prima settimana non fece una lira e gli esercenti pensavano già di smontarlo, poi accaddero due cose, anzi tre, che lanciarono il film: primo, su La stampa di Torino apparve una recensione a tutta pagina scritto da Natalia Ginzburg, una critica stupenda … secondo, la tua musica ebbe subito un successo strepitoso … terzo, Enrico quel sabato sera fu invitato in tv da Mina a Studio Uno e non solo parlò del film, ma la Rai gli permise di far vedere anche l’inizio del film, i ‘Titoli di testa’, i primi due minuti di Anonimo, e la domenica seguente la gente affollò le sale, e partì il successo…

Nell'arco di pochi mesi l'impatto sul pubblico è incredibile: non solo un successo a quel punto insperato, per incassi e clamore. Ma soprattutto, un ingresso trionfale nell'immaginario culturale ed emotivo collettivo.

Dopo anni di cinema “contro”, politico e antiborghese esso sancisce, forse inconsciamente, l’inizio della reazione all’impegno, e rappresenta il simbolo del ritorno al sentimento e al “privato” nell'arte e nella società. Altrettanto emblematico, e complementare, il raffinato e pericoloso ”Morte a Venezia” di Luchino Visconti, datato 1971.

Per arginare i colpi di una agguerrita critica nostrana, ampiamente schierata, si decide di puntare spudoratamente al mercato internazionale più favorevole, girando in inglese per poi doppiare gli attori in italiano. Da un punto di vista commerciale, nulla di più geniale. Ma la colpa di aver fatto cassetta e quello sceneggiatore scomodo di cui diremo poi, non saranno mai del tutto superate, almeno nel nostro Stivaletto (vedasi a tal proposito, il dignitoso 7 di Imdb). Se M. Morandini rimane possibilista e Farinotti entusiasta, tutti gli altri recensori qualificati fanno a pezzi con il macete "Anonimo Veneziano" non senza una strana ed incomprensibile malafede, per esempio accumunandolo al modesto "Love Story" americano, oppure scrivendone: Una coppia separata (Musante e Bolkan) scopre di amarsi ancora in una Venezia brumosa, poco prima che lui, un suonatore d'oboe con l'ambizione di diventare maestro d'orchestra, venga sopraffatto da un male incurabile. Straordinario successo di pubblico per il debutto registico di Salerno in questa sorta di "Love Story" all'italiana (peraltro uscita quasi in contemporanea con il film americano), nel quale sono inseriti tutti gli ingredienti del film patetico e strappalacrime, compreso un attacco al divorzio che era diventato legge proprio in quel periodo… (Mereghetti)

Rivedendolo oggi, a quasi cinquant'anni di distanza, si possono facilmente intuire le ragioni del dissenso - accennate sopra - ma soprattutto quelle di tal fama e consenso di audience: in un'Italia ancora profondamente inibita, almeno pubblicamente, "Anonimo Veneziano" mostra un amore tragicamente erotico e sensuale. Non disgiungendolo da quello romantico, ma anzi amalgamandolo ad esso in un tutt'uno di passione, eccitazione, istinto, sofferenza, tormento, rabbia, distruzione. Il film entra con prepotenza nelle tematiche contemporanee senza nessun intellettualismo, ma affrontandole dal punto di vista del sentimento: lontano da ogni manifesto politico, nel fango dell'umiliazione privata, dei tradimenti, del sesso a pagamento, della crudeltà e della disillusione, Enrico Maria Salerno mette in scena l'inferno di una separazione ante-divorzio con la spada di damocle dell'accusa di adulterio, gli escamotages sociali di convivenze passate per matrimoni, financo al riconoscimento o meno di figli legittimi ed illegittimi. Anche la malattia è elemento tanto inusuale quanto moderno e coinvolgente: "non se ne parla mai" dice il protagonista maschile. Chi ha vissuto quegli anni sa che più spesso il cancro era innominabile: "un brutto male" si sussurrava, e la sorte del malcapitato era segnata direttamente alla fine. Il calvario di sofferenza segretato nelle mura domestiche, quasi come una colpa. Qui, invece, scandagliato.

Però, è appunto Giuseppe Berto a firmare la sceneggiatura: o meglio i dialoghi, che sono tutta la sceneggiatura, di questo film. Quello stesso Berto dall' atteggiamento antiideologico e smarcato dagli intellettuali organici alla sinistra politica. Quello che Ernest Hemingway, intervistato da Montale a Venezia per Il Corriere della Sera, nel 1954, cita fra i tre maggiori scrittori italiani: Pavese, Vittorini e Berto. Al di là del compenso economico, la scelta di accettare l'incarico cinematografico ha motivazioni più profonde, che si definiranno meglio solo nel corso dei sei sette anni successivi. Nel 1971, "Anonimo Veneziano" esce come "Testo drammatico in due atti". Nel 1976, direttamente nella collana BUR, e curiosamente sollecitato dal lavoro della traduttrice inglese Valerie Southorn che ne aveva ingegnosamente trasformato le didascalie teatrali in qualcosa di più vicino a un romanzo, il testo approda alla versione di romanzo breve o racconto lungo che dir si voglia. L'autore continua a ripassarlo dunque: poche ma sostanziali le modifiche. Sicuramente di natura formale - perchè l'esito definitivo resta quello del 1976 - ma anche qualche sfumatura psicologica. Premette questa confessione: Posso dire che in vita mia non avevo mai lavorato tanto per scrivere tanto poco, né mi ero mai così abbandonato al tormentoso piacere di permettere ai pensieri di cercarsi a lungo le parole più appropriate, e nel cercarsele magari mutano e differentemente si presentano sicché ne vogliono altre, e così via. È un’operazione che, d’abitudine, l’industria culturale non chiede, e forse nemmeno gradisce (G. Berto "Anonimo Veneziano" 1976)

Sempre in quella prefazione aggiunge: Hemingway diceva che uno scrittore, se è abbastanza buono, deve misurarsi ogni giorno con l'eternità, o con l'assenza di eternità. io non posso giurare d'essere uno scrittore abbastanza buono, però la fatica di misurarmi con l'eternità o, peggio, con l'assenza di eternità, la conosco anch'io. Un pensiero non dell'ultim ora, ovvio. Una caratteristica di tutta una carriera, o se si vuole, di una vita. "Anonimo veneziano" racchiude il mondo di Berto. A partire dalla banalità: voluta e non accidentale. Perchè è palese che sia l'esistenza umana stessa ad essere banale. Solo dialoghi ordinari e scontati possono essere sul serio veri. L'arte - soprattutto il cinema - fa fatica ad accettarlo, ma è così: siamo un mucchio di ovvietà. Se ci si potesse riguardare, nella foga amorosa come nell'eroismo della sofferenza, ci si scoprirebbe tutti sciocchi e inutili. Ogni cosa è già stata detta, milioni di volte. Ogni situazione è già stata sviluppata e mostrata, da un lato o dall'altro. Nessuno di noi è detentore di straordinarietà e la crudezza, il dolore del male oscuro che permea l'opera dell'autore li si ritrova in una messa in scena cinematografica elegante ma pur sempre amara e inesorabile. L'eternità è ciò che a cui noi aspiriamo: ma l'assenza di eternità quello con cui, in ogni istante, ci scontriamo. La morte, come emblema supremo dell'assenza di eternità. Omesso per ragioni di spazio e tempi nel film, ma onnipresente nelle due edizioni scritte, l' "Ecclesiaste" citato soprattutto per la meditazione sapienziale pessimistica e passiva sullo scorrere delle epoche, appunto: Per ogni cosa c'è un momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C'è un tempo per nascere e un tempo per morire, | un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante. [...] Un tempo per amare e un tempo per odiare, | un tempo per la guerra e un tempo per la pace. (3, 1 – 8)

Ecco dunque che Lui e Lei (Enrico e Valeria) sono emblema di tanti fra noi. Ancora molto giovani, si rincontrano dopo otto anni di lontananza: Lui le ha chiesto di ritornare a Venezia, senza specificarne il motivo. I toni iniziali sono sferzanti, persino spietati: entrambi sanno come ferirsi reciprocamente. Furono marito e moglie: Lei lo abbandonò per un uomo più solido, emotivamente ed economicamente. Lui la tradì mortificandola sotto ogni aspetto, indifferente anche alla presenza di un figlio, Giorgio. Sono separati di fatto, ma non per la legge. Il divorzio è ancora a venire: Lei è una adultera spaventata dall'idea di perdere quanto conquistato con sacrificio e rassegnazione: una solida posizione sociale, la rispettabilità, una nuova famiglia. Lui è un egocentrico immaturo che si riempie la bocca di altisonante anticonformismo per nascondere la frustrazione di una vita spesa male, tra un successo artistico-lavorativo mai arrivato ed una grande solitudine di fondo. Camminando per una città putrida ed umida, rivedendo luoghi e immaginando tempi e persone, ritrovano le ragioni di una unione che pare non essersi mai del tutto spezzata. Non una reserche proustiana, come potrebbe sembrare: piuttosto un viaggio a ritroso attraverso ciò ch’era stato, non ricerca di tempo perduto, di colpo si aveva l’impressione che non si fosse perduto nulla, che in nessuno dei due ci fosse stato progredire verso qualcosa di diverso (G. Berto "Anonimo Veneziano", 1976). Ma la vita presenta il conto sempre, proprio quando meno te lo aspetti. La sua altra faccia: essenziale per definirne la natura effimera. Lui sta' morendo, morirà a breve. Scomparirà nelle fondamenta di una città in agonia da secoli. Cosa resta dunque all'uomo, a questo uomo rabbioso e disilluso? Se l'amore è compassione (quella che più tardi Kundera così definirà ne "L'insostenibile leggerezza dell'essere": capacità di vivere insieme a qualcuno la sua disgrazia, ma anche provare insieme a lui qualsiasi altro sentimento: gioia, angoscia, felicità, dolore. Questa compassione designa quindi la capacità massima di immaginazione affettiva, l'arte della telepatia delle emozioni. Nella gerarchia dei sentimenti è il sentimento supremo) da bruciare all'istante?

Solo l'arte, alfine, può essere strumento di eternità.

Girato quasi tutto in esterni, "Anonimo Veneziano" ci presenta una Venezia quotidiana e a molti sconosciuta: da Sestiere San Marco (San Samuele la vecchia casa di Lui, Campo Santo Stefano il caffè e poi la chiesa di San Vidal, Gran Teatro La Fenice), a Santa Croce (il sotoportego Zambelli dove c'è tanto vento e campo san Zan Degolà per i broccati) a Dorsoduro (la Locanda Montin) a Cannaregio (Campo della Maddalena, la casa coniugale). Ma soprattutto il periferico Canale di Sant'Elena dove i bimbi giocano a rubabandiera, il mercato di Rialto, i barconi commerciali sui canali, le carcasse di navi in laguna, i capanonni (oramai quasi del tutto abbattuti) dell'area portuale della Marittima e la Giudecca, dove Lui parla di granchi che si mangiano, acqua che puzza, i panni stesi ad asciugare, la splendida San Francesco del deserto, così difficile da visitare, dove giovani ed innamorati si rotolavano sul prato. La scelta delle locations delinea una geografia dell'anima incurante della veridicità dei movimenti ma necessaria per lo svolgimento della storia: perché Venezia è la quarta protagonista di questo lungometraggio e la fotografia grumosa, opaca (a parte il flashback di felicità) e tutta sui toni del grigio e del marrone (in una città di mare viene bandito l'azzurro, se si osserva con attenzione) ne esalta questo ruolo. 

Le scelte registiche sono conservative: Enrico Maria Salerno è alla sua prima esperienza e forse un po' impacciato, forse timoroso, opta per un eccesso di sobrietà e qualche caduta di stile imperdonabile, vuoi assecondando la moda del periodo (la corsa dei protagonisti vestiti di bianco fa molto anni '70) vuoi non sapendo bene come sbrigarsela (il finale, con pianto e camminata, è quanto di più brutto si potesse fare). Abbondanza di primi piani, come ci si potrebbe aspettare, campi lunghi sulle passeggiate.

Sbagliato, a mio avviso, il montaggio: invadente, con stacchi al limite dell'aggressivo. Che i toni siano furiosi e acri è un dato di fatto: ma avrei gradito più morbidezza

Come accennato all'inizio, Giuseppe Berto si era immaginato degli attori "di mezza età" neanche poi tanto belli: Enrico Maria Salerno e Ingrid Thulin, Emmanuelle Riva o la Girardot. La produzione impone invece l'aitante e tenebroso Tony Musante e Florinda Bolkan, compagna della potente Marina Cicogna. Molto di quanto già scritto viene rivisto: Valeria diventa una trentacinquenne gelida, convolata a nozze ventenne (forse perché incinta) e scappata per disperazione dopo pochi anni di amore folle e insensato. Enrico, un musicista sulla soglia dei quarant'anni, sgualcito e sempre al verde, convive con un rimorso immenso per il male fatto a sé stesso e alla propria carriera professionale mai decollata, anche per pigrizia, e fatto all'unica donna della sua breve esistenza. Incredibilmente, entrambi gli attori risultano in parte, anche fisicamente: Lei, alta, con quell'aria compassata ed un furore emotivo e sensuale che le cova dentro; Lui, bellissimo, insopportabile manipolatore nascosto da mille bugie che solo l'amplesso denuderà in un grido terribile: Ci pensi? Non diventerò mai uomo!

In questi giorni, mentre ti aspettavo, immaginavo ogni particolare della nostra giornata. Sogravo che avremmo passato le ore andando qua e là, nei posti che più amavamo quando eravamo ragazzi, chiacchierando. Non abbiamo mai veramente parlato, noi due. Abbiamo sempre fatto l'amore o litigato. Questa volta mi sarebbe piaciuto parlare di cose qualciasis, le più stupide possibili, e tu avresti capito, dopo. Dopo avresti capito, ma senza soffrire molto, e magari me ne saresti stata grata, mi avresti ammirato come uomo forte. Invece ci siamo messi a litigare come il solito, e poi, al primo momento buono, t'ho subito spiattellato: guarda che sto morendo. Insicurezza, narcisismo, voglia di consolazione: tutte qualità infantili, Non ce l'ho fatta a crescere, io. (G. Berto "Anonimo Veneziano, 1971)

Un rapporto irragionevole e sadico, evidente anche al di là delle parole. Lui: …Io so il momento preciso in cui ti ho fatto concepire Giorgio. Facevamo l'amore come matti, a quei tempi, non mi bastava mai. Ma non era solo per sensualità, anzi. Forse era addirittura una forma d'impotenza, comunque d'insicurezza...ogni volta pensavo: non tornerà più, vedrai che non tornerà più. E così un giorno decisi: adesso la metto incinta, adesso le metto un figlio nella pancia...non era il figlio che volevo, volevo te. T'ho ricattata, con la gravidanza, per essere sicuro che non saresti sparita, che saresti tornata sempre... (G. Berto "Anonimo Veneziano" 1971). Lei, che si è sottratta per difendere un bimbo e sopravvivere affrontando persino una separazione in un paese che legalmente non la riconosce, ora, alla resa dei conti, non sa che piangere e dire: Voglio morire con te. Lasciamo morire con te. (G. Berto, "Anonimo Veneziano, 1971) proponendo di rimanere a Venezia, o addirittura di uccidere Lei l'amato, in un gesto d'impeto contro la morte.

Solo parole, per di più ovvie: tutto va come deve andare: Lei tornerà a Ferrara (o a Milano) dalla nuova famiglia. Lui si spegnerà lì.

Cosa resta dunque all'uomo, a questo uomo uguale a mille altri, per combattere l'assenza di eternità? Non dire a Giorgio che mi hai visto. Non dirgli niente di me, neanche dopo. Solo quando sarà grande, gli farai sentire il disco, gli dirai che mentre suonavo pensavo a lui, A lui e a te. (G. Berto "Anonimo Veneziano" 1971). Se la bellezza salverà il mondo, come scrisse Dostoesvskij, allora forse l'arte può redimere un cialtrone, ci dice il film. Infranti i sogni di gloria di direttore d'orchesta, Lui stà incidendo, con un ensemble di giovani diplomati, il Concerto in Re minore per oboe, archi e basso continuo. "Anonimo Veneziano" perchè riscoperto, attribuito a Vivaldi, poi a Benedetto Marcello, trascritto da Bach, ma solo recentemente, correttamente ricondotto al suo autore: Alessandro Marcello. Il film si chiude con l'esecuzione di Lui come solista nell'Adagio: crepuscolare e patetico. Immenso. Eterno.

Se Venezia è la quarta protagonista, la musica è di sicuro la terza, in questo film. L'elemento che Berto non può del tutto afferrare e sfruttare con la scrittura, ma che nel lavoro di Enrico Maria Salerno fa da contraltare all'asprezza del racconto, fino a quasi sovrastarlo. Perchè è il mesto e malinconico Largo, arrangiato qua e là insieme ad altri temi classici più tardi, che tocca le corde sensibili dello spettatore e alla fine conferisce quel tono commuovente, per non dire lacrimevole, che fa la fortuna, e la grande sfortuna, di "Anonimo Veneziano". Meraviglioso ed indiscutibile Marcello-da me incontrato in più arrangiamenti, e suonato in un paio di occasioni, l'ultima delle quali, con il flauto traverso nel 2015-molto meno le musiche conformiste e prepotenti di Cipriani.

 

"Anonimo Veneziano" è un raro esempio, nella storia del cinema italiano, di dramma dei sentimenti contemporaneo ed universale. 

Una storia d'amore (o di disamore): quanto di più difficile da rappresentare.

Un film che, malgrado tutto, continuo ad amare

 

 

 

 

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