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Penguin Highway

Regia di Hiroyasu Ishida vedi scheda film

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La recensione su Penguin Highway

di mck
8 stelle

Un film paradossalmente iperrealista: un trattato sull’infanzia al suo apogeo.

 

 

Penguin HighWay”, l'esordio di Hiroyasu Ishida (1988) nel lungometraggio [prodotto da Studio Colorido, scritto da Makoto Ueda adattando l'omonimo romanzo di Tomihiko Morimi (da cui, contemporaneamente all'uscita del film, è stato tratto un manga illustrato da Keito Yano), col character design a cura di Yôjirô Arai, la fotografia di Tetsu Machida, montaggio e musiche di Umitarô Abe, con canzone finale sui titoli di coda, “Good Night”, di Utada Hikaru], tanto affine per tematiche al cinema di Mamoru Hosoda (1967; penso in particolare a “la Ragazza che Saltava nel Tempo” e “Mirai”, e in special modo a “Summer Wars”), e per ambientazione, tratto

 

 

- anche se virato verso una realizzazione generalmente un poco più grezza, con, però, diversamente, inserti iperrealistici vividissimi: ad esempio, a un quarto d'ora dall'inizio, ecco che si apre la porta del caffè-tavola calda-libreria dove Aoyama, il protagonista, e Lady/Sorellona giocano a scacchi: 2 secondi, 24 fotogrammi: la realtà in visione prospettica dal basso; per contro, successivamente, altri piccoli innesti s'inoltrano in territori altri quali quelli abitati da Stan Brakhage, con gl'interventi diretti di pittura sulla pellicola, e, più “banalmente”, da René Magritte, con scatti surrealistici e ventate d’illusionismo onirico -,

 

 

caratterizzazione e cura del tutto a “una Lettera per Momo” di Hiroyuki Okiura (1966; “Jin-Roh”) e, in parte, a “Quando c'era Marnie” di Hiromasa Yonebayashi (1973; “Arietty”), quanto distante da quello di Makoto Shinkai (1973; “5 cm al Secondo”, “Viaggio verso Agartha”, “il Giardino delle Parole”, “Your Name”), è un film profondamente, ulcerosamente, svergognatamente assurdo (aka: giapponese; del resto, poi, uno degli antagonisti è rappresentato da una mandria di carrolliani Jabberwocky con sembianze da pinnipede: foche, otarie, leoni marini e trichechi), e lo è non certo solo e nemmeno in prima istanza per via dell'argomento trattato

 

 

[la “coerenza” interna possiede una sua propria logica - come accade in “Lady in the Water”: solo che, differentemente rispetto al capolavoro di M. Night Shyamalan, qui certe atmosfere di sceneggiatura possono ricordare il po’ men capolavoro di Stefano Reali, “Laggiù nella Giungla” -, ma le “regole” del “gioco”, se pur rispettate (s'un altro fronte, è presente anche la classica "redenzione" dei bulletti: del capo, per parvenza d'amore e vergogna, e dei seguaci e sottoposti, a strascico, per imitazione ed obbligo), si basano - direi per forza di cose, data la natura del prodotto: blockbuster d’autore e non indie autarchico quale può essere “Primer” di Shane Carruth - solamente ed unicamente su accenni riferentisi e cavati fuori dal ben più ampio maelström che comprende la curvatura dello spaziotempo relativistico e i wormhole n-dimensionali tra le brane del cronòtopo],

 

 

né per come lo tratta [le varie Zone dell'arte narrativa, senza disturbare la Tetralogia degli Elementi di J.G. Ballard e lo Stalker di Arkadij e Boris Strugackij & Andrej Tarkovskij, si considerino il Chaga/Kirinya di Ian McDonald) e Annihilation” di Jeff VanderMeer & Alex Garland],

 

 

ma perché assume come unico punto di vista assoluto (al contrario di molti film altrettanto validi congeneri: “MoonRise KingDom” di Wes Anderson, “the Young and Prodigious T.S. Spivet” di Jean-Pierre Jeunet e “the Book of Henry” di Colin Trevorrow) quello di un ragazzino [ed è impossibile non riandare con la mente a “Edwin MullHouse: the Life and Death of an American Writer (1943-1954), by Jeffrey CartWright - a Novel”, l'esordio di Steven Millhauser del 1972],

 

 

vale a dire il già summenzionato Aoyama, nemmen quasi decenne, e con una passione naturalmente smodata per le (tor)tette (poppe, Poppe, POPPE!), ché si sa, quella per il culo (chiappe, Chiappe, CHIAPPE!) sorge più tardi, verso i 12/13 anni: talmente preponderante e unico (c'è solo un momento in cui il PdV passa, ma solo collateralmente, osservato dall'esterno, ad un altro personaggio, la Lady/Sorellona: pochi fotogrammi che compongono una brevissima parentesi)

 

 

da arrivare a condizionare e distorcere la percezione che lo spettatore ha dell'ambiente, della comunità e delle sovrastrutture umane adulte che circondano il protagonista, Aoyama: il mondo appare delirante - prima di diventarlo davvero, pur continuando a mantenere una propria logicità dettata però, comunque, da regole sì precise, ma senza fondamento né riscontro - anche e soprattutto per la quasi totale assenza attiva del mondo degli adulti

 

 

[è un topos, un espediente, un dispositivo utilizzato molto spesso dal cinema e dall'arte narrativa in gener(al)e che racconta l'infanzia e l'adolescenza, si pensi, senza scomodare Jean Vigo (Zero) e importunare Francois Truffaut (400), al recente “It Follows” e, ancor più, al cinema stesso di Hayao Miyazaki, in particolar modo a “la Città Incantata / Spirited Away / la Misteriosa Sparizione Spiritica di Sen e Chihiro ad Opera dei Kami”]

 

 

che, quando è presente (tutto il contesto famigliare dell’amico del cuore, Uchida, è mancante), diviene o insignificante [la madre del protagonista (da questo PdV un ruolo maggiore ce l’ha la sorellina) e - al principio - il padre della ragazzina sua compagna di classe, Hamamoto] - quando in realtà è semplicemente la messa in scena letterale dell'atteggiamento con cui gli adulti guardano i ragazzini, ovverossia: senza vederli - o ambiguamente, anche se in maniera positiva, relazionantesi (il padre di Aoyama).

 

 

E ok, di mammelle s'è discusso, ma di pinguini? Non una parola sui pinguini?!?! Innanzitutto, Pigoscelidi di Adelia (Pygoscelis adeliae), grazie.
Poi, eccoli qua, anche se sono Pinguini Minori Blu (Eudyptula minor): http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2019/07/19/nuova-zelanda-2-pinguini-al-sushi-bar_91a6740b-2fc5-4625-ba4b-cab2ebae3886.html

 

 

Un film paradossalmente iperrealista: un trattato sull’infanzia al suo apogeo.

 

* * * ¾ (****)

 

 

                                              - Tu non ti arrabbi proprio mai, eh?
                                              - Quando mi sento in collera risolvo pensando alle tette.
                                    (Albert Einstein, Russ Meyer, Howard Hughes o Charles Manson.)   

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