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M.A.S.H.

Regia di Robert Altman vedi scheda film

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La recensione su M.A.S.H.

di thedreamer
6 stelle

Mash, anarchico e graffiante esperimento figlio dei suoi tempi

 

 

Spogliando Mash, 1970, di Robert Altman, da qualsiasi “sovrastruttura” esso ci appare come l’insieme delle peripezie compiute da un gruppo di chirurghi dell’esercito statunitense, delle infermiere e di altri soggetti che orbitano intorno a questi, in un campo militare in Corea. Su tutti spunta un trio di scapestrati dall’atteggiamento antimilitare e buffonesco formato da: Hawkeye Pierce, Trapper John McIntyre e Duke Forrest (Donald Sutherland, Elliott Gould e Tom Skerritt). A capo di questi e dell’intero campo vi è il colonnello Henry Blake (Roger Bowen), anch’egli parodia di un vero comandante, sornione e bonario ma solo finché tutto fila liscio e i suoi sottoposti lavorano bene.  Però Mash è soprattutto la sua sovrastruttura, un film senza il quale non si potrebbe avere un quadro d’insieme efficace del cinema americano degli anni ’60-’70; in altre parole non si può non tenere conto di esso. Non si può ignorarlo principalmente per tre motivi: quello politico, quello sociale e quello cinematografico. Nel primo caso perché questo film incarna, come altri più o meno dello stesso periodo, un malessere generale della politica americana, impelagata com’era in conflitti per l’egemonia mondiale, in piena guerra fredda, avvertiti via a via sempre più estranei da una buona fetta dell’opinione pubblica statunitense, su tutti quello in Vietnam. Ed è proprio a questo conflitto che il regista fa riferimento pur ambientandolo in Corea dove peraltro gli Usa spedirono diversi contingenti negli anni ’50. Non è la prima volta che il cinema compie operazioni di questo genere, slittamenti temporali, per evitare di incorrere in problemi di censura basti pensare al cinema italiano degli anni ’30, per intenderci quelli sotto il regime fascista, per capire meglio di cosa stiamo parlando. Questo iato tra la società civile americana e la politica, simboleggiata in particolar modo dalla figura di Nixon, sarà il retroterra per la diffusione nel corso degli anni ‘70 se non di un filone, per certi versi collegato seppur distante da quello che riguarda propriamente il conflitto in Vietnam, quanto di un cospicuo numero di pellicole che avranno come temi privilegiati il caso Watergate, con film come All the President's Men (Tutti gli uomini del presidente), 1976, di Alan J. Pakula e più in generale la percezione di un clima di sfiducia nei confronti di un potere politico e di una società visti come oppressivi ed invadenti anche della sfera privata dei cittadini; The conversation (La conversazione), 1974, di Francis Ford Coppola può rappresentarle tutte. Però a differenza di questi film o di altri degli anni ’70, come Taxi driver, 1976, di Martin Scorsese,The Deer Hunter (Il cacciatore), 1978, di  Michael Cimino o Apocalypse now, 1979, di Francis Ford Coppola (anche se questo va ben oltre la questione del Vietnam), che focalizzano attraverso un’aspra e drammatica denuncia la loro attenzione sulla guerra in Vietnam, il fenomeno del reducismo e le sue ricadute sulla società, in Mash il tono prevalente è satirico, dissacrante, traslato e anarchico. Queste immagini non ci fanno neanche per un momento “respirare” la guerra se non durante le operazioni mediche che quotidianamente coinvolgono i membri della Mobile Army Surgical Hospital; qui l’indignazione si è sublimata in derisione più che denuncia. Il profondo solco che divide politica e società in questa fase storica ci permette di lanciare il nostro secondo motivo conduttore ovvero quello sociale. Non dimentichiamo che gli anni a cavallo dei decenni ’60-’70 sono anche quelli dell’inizio delle grandi contestazioni occidentali, portatrici di nuovi bisogni e di un cambiamento più esteso della società. Nel film, la protesta si trasforma, come detto, in derisione ed essa è trasversale: nei confronti dell’eroismo militare e della vita negli accampamenti; nei confronti della chiesa, in quanto vediamo in azione un sacerdote prezzemolino, padre John Mulcahy (Rene Auberjonois) e un militare pio, austero e devoto alla causa, il Major Frank Burns (Robert Duvall) salvo poi sprofondare nella voluttà della carne quando al campo arriva l’infermiera capo, Major Margaret Houlihan (Sally Kellerman) soprannominata poi “hot lips” in una delle scene più esilaranti del film in cui sono coinvolti i due personaggi. E cosa dire della grottesca “ultima cena” del Capt. “Painless” Waldowski, (John Schuck) che vede coinvolto l’intero gruppo? Ma Altman non si ferma a ridicolizzare religione ed esercito, va ben oltre colpendo la tradizione americana attraverso la messa in ridicolo di uno degli sport tipici della cultura statunitense: il football. Infine il terzo ed ultimo motivo per cui vale la pena “ricordare” questo film è strettamente cinematografico. La carica “eversiva” che lo caratterizza non è soltanto nei contenuti ma anche nella forma, ancora più di un altro film bruciante, degli stessi anni e nello stesso clima (anch’esso palma d’oro a Cannes) come If…, 1968, di Lindsay Anderson. Qui tutta la struttura “classica” del film viene meno, domina lo sperimentalismo con l’alternarsi di incalzanti siparietti dai dialoghi rapidi e corrosivi, senza una sintassi come se fossero tante scenette incollate l’una all’altra senza alcun filo conduttore se non le varie peripezie dei tre protagonisti e quella sorta di armata Brancaleone che sono gli altri militari del campo. Si tratta di un film importante ma è bene sempre contestualizzalo all’epoca e al clima di riferimento per non apparire un tantino datato.

 

 

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