Regia di Nicole Vögele vedi scheda film
È mattina, è sera, è presto, è tardi. Non importa a che punto siamo. Perché, in ogni caso, siamo.
È sempre orario di chiusura o di apertura. Ogni istante è l’inizio o la fine di qualcosa. Non c’è tregua, nello scorrere del tempo. La città è eternamente insonne, in costante attesa del risveglio o del momento di andare a dormire. Il riposo è sempre di là da venire. Si può rimanere disorientati, di fronte a questa assenza di ritmicità, che confonde la notte e il giorno, l’alba e il tramonto. Per le strade di Taipei l’attività continua, frenetica, lungo le corsie tempestate di fari, o nelle cornici delle botteghe illuminate in mezzo al buio. La penombra è l’effetto ottico dell’indecisione, del giudizio sospeso sul prima e sul dopo, che si lascia cullare da un presente senza nome. Il racconto diventa allora impossibile, la cronologia si infrange in una silente fantasmagoria di singoli scatti, sottratti alla schiavitù delle sequenze logiche. Si può girare un film così, nella più totale libertà, fuori dal diktat della tensione evolutiva, secondo la placida uniformità di un’osservazione che non conosce curiosità né ansia, perché, semplicemente, guarda il nulla mentre accade. Non c’è mai niente di strano o di diverso dal solito, tutto sembra maledettamente consueto, testardamente inutile e ripetitivo, immune dalla speranza ma gonfio della più profonda serenità dell’animo. Un cane randagio cerca insistentemente il suo padrone, che sa bene non tornerà più, e intanto si rassegna al proprio vagare, grato delle attenzioni estranee che riceve. La coppia di ristoratori resta in negozio, a preparare il cibo che non vende, o che non compra al mercato, perché è troppo caro. Poi chiude la serranda e torna a casa, aprendo il portone posto a fianco. Il mondo gira mentre nessuno, in fondo, si muove. Il moto cosmico è una rotazione impressa alla Terra dalle azioni cicliche di sbucciare un ortaggio, contare le monete di un distributore automatico, dirigere il traffico agitando un segnale luminoso. La giostra gira, compiendo le sue comuni evoluzioni, banali, però aggraziate e gradevoli alla vista. Lo spettacolo, del resto, siamo noi, posti al centro del palcoscenico, protagonisti estemporanei delle precise geometrie di un obiettivo. Possiamo immaginarci al centro del mondo, se è vero che non esistono riferimenti, e l’adesso è un punto qualunque, in mezzo ad un’infinità di fotogrammi da sfogliare. In un universo indifferenziato, anche la fuga è un tratto della normalità, che rompe le righe solo per seguire la traccia di un armonioso, preordinato divenire. La vastità del mare è lo sterminato limite. È l’apertura sconfinata che marca un contorno invalicabile. Il disegno riproduce il motivo assegnato. È un ghirigoro come tanti, intinto nell’inchiostro, fine e tenebroso, della nostra misteriosa, inquieta umanità.
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