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Jojo Rabbit

Regia di Taika Waititi vedi scheda film

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La recensione su Jojo Rabbit

di supadany
7 stelle

Torino Film Festival 37 – Festa Mobile.

Le condizioni sociali, culturali, politiche e ambientali sono fattori cruciali che concorrono a plasmare il modo di pensare e agire delle persone. Lo sono ancora di più nella formazione dei più giovani, incapaci di discernere il giusto dallo sbagliato, bisognosi di imbeccare una strada da seguire con assoluta dedizione, per forza di cose influenzati - nel bene e nel male – da chi detiene il comando, chi con autorità trascina un intero popolo, stabilendo le leggi, decretando quale sia la forma mentis dominante. 

Uomini carismatici soffocati dalla sete di potere che, nel corso della Storia, in tante occasioni si sono macchiati di atrocità inenarrabili, trascinando chi si fidava di loro verso un’ecatombe. Purtroppo per la maggioranza di chi credeva ciecamente in loro, il momento della verità arriva troppo tardi per fare dietrofront.

In Jojo Rabbit questi discorsi vengono estremizzati, combinando addendi agli antipodi senza denotare alcun timore reverenziale, con contrapposizioni talmente accentuate da scatenare, anche nel giro di pochi minuti, entusiasmi contagiosi e perplessità acute.   

Vienna, 1945. Johannes “Jojo” Betzler (Roman Griffin Davis) è un ragazzino introverso di soli dieci anni, vive con sua madre Rosie (Scarlett Johansson) e sogna di diventare una guardia scelta del suo idolo, Adolf Hitler, tanto da averlo trasformato nel suo amico immaginario (Taika Waititi).

Così, tenta la via dell’addestramento precoce, ma sotto gli ordini del Capitano Klenzendorf (Sam Rockwell) non combina nulla di buono, tanto da essere soprannominato Jojo Rabbit e da dover tornare a casa con la coda tra le gambe dopo un incidente che lo ha sfigurato.

Nonostante gli acciacchi non demorde, continua a fare il possibile per essere considerato un perfetto nazista. Qualcosa in lui cambierà nel momento in cui scopre che sua madre nasconde in una stanza segreta Elsa (Thomasin McKenzie), una ragazza ebrea poco più grande di lui.

Dopo i primi inevitabili attriti, Jojo non potrà fare a meno di notare come Elsa non rappresenti in alcun modo il ritratto puteolente degli ebrei che l’educazione nazista gli ha impartito.

 

Taika Waititi, Roman Griffin Davis

Jojo Rabbit (2019): Taika Waititi, Roman Griffin Davis

 

Dopo aver conquistato i botteghini di tutto il mondo con Thor: Ragnarok, il neozelandese Taika Waititi abbassa la cresta del budget ma alza notevolmente il tiro delle ambizioni, manovrando i tizzoni ardenti della Storia per imbastire un mosaico contenente tasselli in netta discordanza, senza paura di sporcarsi le mani, conscio comunque di poter ristabilire l’ordine prima che sia troppo tardi, dando all’operazione un senso, nei limiti del possibile, compiuto.

Dunque, il crepuscolo della Seconda Guerra Mondiale è lo scenario temporale scelto. Il fronte è quello degli ormai prossimi perdenti, nonché nemici giurati del mondo intero, giapponesi a parte, quei nazisti che fino all’ultimo istante rimasero appesi alle bugie del loro indiscusso leader, eleggendo cartina tornasole un bambino.

Seguendo il punto di vista di Jojo Rabbit, Taika Waititi ripercorre le tenebre di un periodo senza apparente speranza, sfiora l’abisso e poi permette alla vitalità di tornare in auge (parte delle sensazioni trasmesse ricordano La vita è bella). Detta così, niente di particolarmente insolito, sennonché a fare la differenza ci pensano le modalità propositive, che centrifugano mozioni sulla carta inconciliabili.

Da un lato, gli sviluppi riguardanti il giovane protagonista rientrano nel territorio di una favola sui generis, con tanto di supporto immaginario per scavalcare ostacoli insuperabili e un’acquisizione di consapevolezza che necessita di tempo, avversità e metaforiche secchiate d’acqua fredda per attecchire. Da un altro, il taglio fa ampio ricorso alla satira, talvolta immergendosi fino al collo nel demenziale (vedi la performance scombiccherata di Rebel Wilson), per sbeffeggiare i costumi intransigenti imposti (vedi l’orientamento sessuale di Klenzendorf/Sam Rockwell). Infine, con un’ambientazione del genere non può che affiorare il dramma, con la sistematica denigrazione di ogni imperfezione, la caccia all’ebreo e chi antepone la vita altrui alla propria, chi si ritrova a essere vittima senza avere avuto il tempo di maturare una colpa effettiva.

 

Thomasin McKenzie, Roman Griffin Davis

Jojo Rabbit (2019): Thomasin McKenzie, Roman Griffin Davis

 

In virtù di queste considerazioni, la metrica è vistosamente scomposta, con un effetto da montagne russe, ma anche una libertà di movimento che consente di scavalcare di slancio recinti arcigni, magari senza fare un salto stilisticamente perfetto ma con effetti macroscopici.

Questo è vero soprattutto in riferimento al pubblico (il premio al Festival di Toronto ne è una esplicita testimonianza), che saprà coglierne i pregi senza arrovellarsi le meningi dinnanzi ai passaggi più spericolati, apprezzando i messaggi di conoscenza e apertura nei confronti di chi viene considerato diverso, le caricature coraggiose (in primis di Adolf Hitler/Taika Waititi, a seguire del sinistro Deertz/Stephen Merchant), i pericoli annidati nel lavaggio del cervello attualmente in atto, così come una chiusura travolgente e sintomatica di una ritrovata voglia di vivere.

L’unico attributo che può farci ancora guardare al futuro con una certa dose di fiducia.

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