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I segreti di Twin Peaks

Regia di David Lynch vedi scheda film

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La recensione su I segreti di Twin Peaks

di PompiereFI
10 stelle

Il corpo senza vita di Laura Palmer viene ritrovato all’alba del 24 febbraio 1990, avvolto in un sacco di plastica, a Packard Mill, sulla spiaggia del lago sotto la grande roccia…

Inizia così uno dei serial televisivi di maggior culto di tutti i tempi, forse quello che ha saputo maggiormente elevare la qualità allo status di fenomeno commerciale per antonomasia, vera icona e punto di riferimento per un’intera generazione di pubblico meravigliosamente eterogeneo e variabile, e con un immaginario così dirompente che ha potuto così farci conoscere alcuni fra i segreti di… David Lynch.

Il regista americano era stato, fino ad allora, un artista così distante dal mezzo televisivo tanto che si era imposto solo al cinema, con la forza delle sue percezioni sfrontate e originali. Ciononostante si dimostrò un autore perfettamente televisivo per come seppe utilizzare al meglio “brandelli” narrativi, amalgamare i codici visivi, senza mirare tanto alla logicità quanto all’impatto viscerale. Non c’era mai stato niente di simile in tv, prima di quella volta: il mondo contorto che presenta “Twin Peaks” si rivela alla portata di tutti perchè è, allo stesso tempo, ambiguo e conosciuto.

 





BENVENUTI A TWIN PEAKS

L’episodio pilota è stato girato quasi interamente nei dintorni e nel paese di Snoqualmie, a poche miglia di distanza da Seattle. I titoli di testa mostrano la segheria del paese, la cascata di Snoqualmie Falls e le doppie cime del monte Si. A Twin Peaks la salute e l’industria sembrano andare mano nella mano. Come in quasi tutti i film di Lynch quando il film inizia in realtà… è già principiato. Le vicende preminenti si sono già svolte, “Twin Peaks” inizia ma Laura è già morta “avvolta nella plastica” (come recita Jack Nance, uno degli attori-feticcio di David). La popolazione di 51.201 abitanti, come stampato sul tipico cartello lungo la strada statale che si articola tra i boschi, sarebbe già da correggere.

Non si è mai visto piangere tanto in un serial televisivo come all’inizio di “Twin Peaks”. Andy, l’animo candido del Corpo di polizia, scatta le fotografie al cadavere in riva al fiume e si mette a singhiozzare; è evidente l’imbarazzo sui volti dello sceriffo e del dottore. Il padre e la madre di Laura sono a telefono quando lo sceriffo gli comunica della sciagura e non si risparmiano lacrime, lamenti e urla di disperazione che, se sono coerenti e comprensibili vista la situazione (Laura muore che ha solo 17 anni), Lynch decide comunque di mostrarci per intero, senza tagli visivi ne’ emotivi. La scelta del doppiaggio in italiano, poi, per rispettare questo momento di enorme pathos non ha voluto differire dall’effetto della traccia originale, lasciando anche per quella nostrana il doppiaggio autentico

Ancora più vasta eco avrà la notizia quando sarà annunciata all’interno della scuola: Dana, la migliore amica di Laura, è la prima a rendersi conto della sventura che si è compiuta e poi l’annuncio del preside, un momento terribile dove il grande dolore è tangibile, l’eco della voce risuona solenne tra i corridoi vuoti della scuola, prima di crollare anch’essa in un pianto dirotto. L’effetto prodotto da queste immagini così tristi e scioccanti è quello di una situazione di vero dramma, e il nostro pensiero si muove conciliante e comprensivo senza sapere quello che scoprirà in seguito sui segreti di Laura e della “sua” Twin Peaks. L’inganno narrativo di Lynch è già in moto, la trappola è scattata ed è troppo tardi per uscirne. E il primo piano in avvicinamento (così protratto e tenero) della foto di Laura reginetta della scuola non fa che estorcere i nostri sentimenti più nobili.

 


IL GIALLO E’ NERO


Sembra che gli abitanti di Twin Peaks non avessero mai avuto sorprese fino al giorno della morte di Laura, la ragazza dalla pelle delicata e dal profumo buono, che tutti sembravano conoscere così bene. E’ una città dove il giallo al semaforo significa ancora rallentare invece che accelerare, un piccolo paradiso fatto di vecchie consuetudini, agiatezza economica, forti vincoli familiari e crostate di mele.

Ma, come sotto un’unghia di Laura si nasconde una “R” scritta su un foglio di carta, così sotto l’apparente normalità e tranquillità del paesino si nascondono segreti oscuri e profondi, amori proibiti, cupidigie, invidie, traffici illeciti che arriveranno fino alle soglie della brutalità e della follia. I principi del giallo sono sovvertiti, il colore che emerge dalla nebbia in cui è avvolta la verità è il nero, e Lynch ci spinge a perderci in esso.

Non si tratta più di un apparente remake nello stile di “Peyton Place”. Il nuovo serial sconvolge e colpisce per la forte penetrazione di un mondo adolescenziale ignoto, esoterico, provocante, irriverente e bugiardo. Niente a che spartire nemmeno con le storie leziose e gli amori all’acqua di rose di “Beverly Hills 90210”. L’unica soap-opera che compare in “Twin Peaks” (e seguita in tv dai protagonisti del telefilm) si chiama “Invitation to love” ed è una caricatura di quelle esistite fino a lì; sembra quasi che Lynch la inventi e la mostri per far vedere quello che non gli appartiene, per prenderne le distanze. Si ricorda che, al tempo, erano le soap quelle che andavano per la maggiore e, dal 1987, era nata anche “Beautiful”.

Mark Frost e David Lynch riescono a dare forma a paure fantastiche e invitanti: magia nera, possessioni, rapimenti di alieni, tutte concentrate nella stessa storia ma senza esagerare, accennandole per poi ritrarle e farle passare come storie sottotraccia a quella che si vuol far rimanere come domanda preminente: Chi ha ucciso Laura Palmer?

Coloro che contemplassero la serie immaginandosi un semplice sviluppo poliziesco, però, sarebbero dati in sorte alla delusione. “Twin Peaks” è, sì, chiuso tra due grandi generi narrativi, soap opera e detective-story, ma poi mette a disposizione qualcosa che sta fuori, al di là delle attese. La ricerca del colpevole diventa solo un’occasione per un flemmatico ed eccentrico itinerario.

Introdotta la prima volta da un montaggio serrato con lampi e flash di stroboscopiche, la regione infernale, il luogo “altro”, l’opposto della vita, la zona dove anche le braccia si piegano oscenamente all’indietro e dove “nell’oscurità di un futuro passato, il mago desidera vedere”, è la Loggia Nera. Lì troviamo un nano, l’uomo che viene da un posto “altro” e attraverso di lui possiamo accedere al recondito sposando il significato della celebre frase: “Fuoco, cammina con me!”. Il nano ballerino (Michael J. Anderson, che ritornerà anche in “Mulholland Drive”) parla al contrario, Cooper è invecchiato e Laura Palmer gli sussurra subito all’orecchio chi l’ha uccisa. Questa è la sequenza che tinge irreparabilmente di nero l’intero telefilm, la discesa agli inferi dalla quale non si farà più ritorno.


Sembra che Lynch abbia avuto l’intuito di inserire la cosiddetta “stanza rossa” dopo un sogno o in seguito a una meditazione. E’ interessante notare come certe idee arrivino alla nostra percezione, così, all’improvviso, e spesso non si presentino sotto forma di parole ma di sogni (segni?). Basti pensare che durante le riprese dell’episodio pilota, l’arredatore Frank Silva stava spostando dei mobili quando l’immaginazione di Lynch si mise al lavoro e lo fece diventare quell’indimenticabile personaggio che è BOB.

 

(ST)RIDERE, (ST)RIDERE, (ST)RIDERE

Sballottati tra il comico e il surreale, gli spettatori sono preda di questo magnifico esempio di televisione creativa, che lascia un segno profondo e la sensazione di aver condiviso qualcosa di singolare. Riuscire a interdire, seppur momentaneamente, l’accesso a una facile fruizione dell’immagine è un’apprezzabile dimostrazione di ispirazione creativa e di abilità visionaria. 

Prendiamo la scena dove Lucy, la segretaria dal quoziente intellettivo più basso del mondo, riceve la telefonata di Pete, quella che informerà lo sceriffo del ritrovamento del cadavere di Laura, e lei perde ingenuamente tempo per indicare al Capo della Polizia su quale telefono gli passerà la chiamata. Oppure quella dove i norvegesi abbandonano l’albergo sulle note di una marcetta felice perché Audrey Horne (Sherilyn Fenn) li ha informati dell’assassinio di Laura. Il padre Benjamin Horne (Richard Beymer), titolare dell’hotel, perde l’occasione di chiudere l’affare e la figlia ride birichina e “marachellosa”, nascosta dietro una colonna.

L’indagine sull’omicidio di Laura è un’avventura poliziesca che attraversa tutti i capolinea comandati: interrogatori, ipotesi, incarcerazioni, altre ipotesi, tentativi di fuga. Anche queste però sono esaminate con uno sguardo eversivo: non si impone nessuna coerenza, nessun quadro preciso sugli avvenimenti, ma uno strano succedersi di illuminazioni occasionali, confessioni volontarie e persino deliri profetici.

Esempio lampante è il lancio dei sassi nel tentativo di colpire una bottiglia e la spiegazione di Cooper sul Tibet e la sua religione: gli astanti si muovono all’unisono sulle sedie, attenti alla spiegazione. Cooper, tramite un sogno avvenuto ben 3 anni prima, avrebbe assunto i fondamenti di una tecnica deduttiva e impegna i presenti in un gioco assurdo dove questi cooperano al fianco dell’agente indossando guanti da cucina, reggendo secchielli, usando gessetti su una lavagna e pronunciando i nomi dei conoscenti di Laura che iniziano con la lettera “J”. Ovviamente non manca il momento comico durante il quale Cooper colpisce alla testa Andy con un sasso. La musica jazz di sottofondo sta a sottolineare quell’avvenimento come un incedere sincopato e diseguale, incoerente con qualsiasi movimento (mentale e fisico) attinente la realtà. E’ spassoso vedere come i protagonisti partecipino alla vicenda come se credessero veramente a quello che stanno facendo; sta qui l’arte dello (st)ridere.

E sta anche nella scena dove Bobby Briggs surfa sul cofano della macchina, riprendendo un quadro già dipinto da Lynch in “Velluto blu”, quando una scagnozza di Frank balla sul tettino dell’auto.

Sono due le volte durante le quali Leland, il padre di Laura, tenta un ricongiungimento spirituale e tattile (se non proprio carnale) con la figlia. La prima volta, sulle note di un accattivante swing, balla con la sua foto incorniciata in mano fino a che non la rompe, si taglia e sparge il sangue sul volto. Qui Lynch osa fino a rischiare la pornografia: quella che concerne i corpi ma anche quella degli affetti, sottratti a qualsiasi copertura e riparo. E lo fa con una naturalezza che è a suo modo esente da censure conformistiche: non per dimostrare qualcosa, non per tornaconto, ma per curiosità.

L’altra scena di esorbitante squilibrio è quella durante il funerale di Laura, quando il padre si getta sulla bara della figlia, prima della sepoltura. Il meccanismo elettronico, che dovrebbe calare sotto terra il feretro, si inceppa e comincia a oscillare su e giù: una splendida riproduzione dell’atto sessuale. Al di là di qualsiasi presa di posizione “etica”, Lynch non vuole rappresentare una scena di incesto, piuttosto il forte e proibitivo desiderio di possesso e la disperazione estrema per la perdita della figlia.

 




DOPPIO DELLE MIE BRAME…



Perché accontentarsi di una cosa sola quando se ne possono avere due? Il tema del doppio è così preminente nell’opera lynchana che si rischia sempre di annoiare e infastidire nel renderlo evidente.

Due sono le ciminiere della segheria, due le note della sigla iniziale che diventerà un gradito tormentone, due le anatre che galleggiano sul lago, due gli animali che compongono la statua vicina a Josie Packard (Joan Chen, la vedova dell’ex proprietario della segheria) che riflette la sua immagine… allo specchio! Anche lei ha qualcosa da nascondere, a cominciare dalla sua relazione con lo sceriffo.

Il “Double R Cafè” contiene, già nel nome, due consonanti. Ed è in quel luogo che si scoprono relazioni sentimentali clandestine multiple: Bobby Briggs, già amante di Laura, se la intende con Shelley, sposata con Leo, e Norma, proprietaria del “Double R.”, se la intende con Big Ed (Everett McGill), gestore di una stazione di servizio. La catenina col cuore d’oro, appartenuta a Laura, a questo punto si può benissimo dividere in due: così come il sentimento, il cuore può battere per due persone o anche più. Possedere una parte del cuore (l’altra metà) della collana non vuol dire avere accesso ai sentimenti.

“Chi ha ucciso Laura Palmer?” non è tanto una domanda a cui dare una risposta, quanto un’espressione liturgica che da’ la possibilità di accedere a un mondo arcano. Il motivo di richiamo si sposta dalla soluzione del “giallo” alla moltiplicazione delle domande, dall’eliminazione dei misteri al loro ampliarsi verso sempre più consistenti aspetti della vita dei personaggi.

Tanti nomi iniziano per J., l’ultima persona che Laura ha incontrato la notte che è morta: James, Josie, Joey, Johnny, Dr. Jacoby, Norma Jennings, Shelly e Leo Johnson, perfino “Jack with one eye” diventano possibili indiziati. Qui Lynch ci (si) balocca con un divertissement fine a se’ stesso, un MacGuffin di matrice hitchcockiana in piena regola.

Il “One-Eyed Jack’s”, a proposito di inganni, è un finto passaggio a Nord-Ovest, il bordello della corruzione e della perversione dove poter (ri)prendere la propria sorte; ci vanno gli uomini e le donne ci lavorano. Due i sessi contrapposti (e più spesso uniti) e due i viatici per uscire dal Paese (Stati Uniti e/o Twin Peaks), per dare un nuovo senso alle proprie condizioni.

Due anche i registri contabili della segheria Packard: come possono esistere regole amministrative e finanziarie in un mondo maledettamente fantastico e immaginario?

E anche nel caso della sosia di Laura, la parola fine è pura convenzione; ogni verità che crediamo di aver colto nasconde un altro mistero. Al fondo dell’abisso, si apre un abisso ancora più profondo, una vertigine. Non a caso la cugina di Laura, perfettamente uguale alla deceduta a parte il colore nero dei capelli invece che biondo, si chiama Madeleine, come il personaggio di Kim Novak ne “La donna che visse due volte” di Hitchcock. Forse Lynch, in questo caso, non ha intenzione di strizzare l’occhio ai capolavori del passato per ingraziarsi i cinefili o assecondare i principianti; lui vuole soltanto dare ascolto a un sogno a occhi aperti, visibilmente assillato dall’idea del ritorno di chi è scomparso.

 

MUSICA, MAESTRO!



E’ del tutto improbabile riuscire a isolare l’acuto componimento musicale di Angelo Badalamenti dalla visione di “Twin Peaks”. L’accoppiata Lynch/Badalamenti (già memorabile quattro anni prima in “Velluto blu”) è vincente perché l’una rivela e completa l’altra. Il vigoroso scambio creativo tra la parte visiva e quella auditiva da’ l’impressione che la colonna sonora sia in grado, da sola, di creare immagini, nonché la visione pare dotata di armi autonome per svilupparsi da se’ in note musicali.

“Twin Peak’s Theme” è, ormai, una melodia “di casa”. Descritta da Badalamenti con due note profonde, premonitrici di foschi presagi, che si espandono e si gonfiano per poi attenuarsi in ampie spirali, è influenzata da toccanti orchestrazioni elettroniche.

Badalamenti è un fornitissimo gregario al servizio di Lynch e rende vive con le sue note le scene, ora strazianti ora auliche, dell’immaginario lynchano. Melodie commoventi fanno da contraltare ad altre appassionate e disperate.

“Falling”, il tema di Twin Peaks, è cantato da Julee Cruise, spiritello incorporeo sceso sul palco del pub “Road House”, così come “The Nightingale” (dove continua a cantare pure durante la rissa della birreria, in contrasto con quello che sta accadendo); un’occasione irripetibile per far emergere la sua voce angelica, lontana e riflessa. Il risultato è quello di farci percepire come affascinanti, scene che altrimenti sarebbero avvertibili solo con ansia e nervosismo.

“Audrey’s Dance” accompagna tutti i movimenti sinuosi e sensuali della splendida Audrey Horne e tutte le sue paia di scarpe indossate (Lynch è un feticista del piede e della scarpa in generale). Il jazz notturno, proposto qui da Badalamenti, è velato, musicalmente e visivamente inclinato, ma così piacevole da risultare una delle tracce migliori dell’album.

L’intera soundtrack resta un bellissimo gioiello nell’ambito di tutte le colonne sonore, capace di far collimare la musica con l’aspetto di una stanza, con le emozioni che suscita un iride in primo piano, o con i dialoghi classicamente accompagnati dai suoi puntuali sottofondi.

 





INDUSTRIAL SYMPHONY


I fumi della segheria, le attrezzature sempre al lavoro, l’idea dell’industria operosa che lavora i tronchi di legno ricavati dagli alberi dalla venatura verticale, i Douglas Fir, che si trovano nei boschi della zona, consegnati da grossi camion… sono elementi che ritornano nella filmografia di Lynch, soprattutto quando possono acquisire un significato di decadenza. Si ha l’impressione infatti che la segheria rifletta la malattia della gente che vive a Twin Peaks, il continuo correre, arrancare, muoversi, indaffararsi a vuoto della gente è quello dei lavoratori che tagliano, elaborano il legno ma con poco costrutto. La segheria è nascosta ai nostri occhi, esiste solo per essere filmata dall’esterno, e quando Lynch decide di farci entrare è perché è in corso un incendio. E di “legna da ardere” per le atmosfere di “Twin Peaks” ce n’è a sufficienza.

In realtà i frutti del lavoro si vedono negli oggetti di legno intagliato al Great Northern Hotel e per le varie case del paese e sono messi pacchianamente in evidenza a sottolineare il cattivo gusto degli abitanti.

 

I PIU’ E I MENO

Se nel cinema di Lynch si assiste al trionfo del doppio, parimenti si assiste alla mutilazione, a quello che manca, alla privazione anche fisica di alcuni elementi o parti del corpo. Così come abbiamo assistito a riferimenti sulla doppia vita, esiste uno stato d’animo di vita “incompiuta”.

A Nadine è “concesso” di vedere da un occhio solo, la sua vita sembra rivolta solo all’utilizzo della sua guida per le tende marroncine chiare, compratele da Ed, suo marito. Capace di rimanere sveglia tutta la notte per cercare un sistema affinché la nuova guida per le tende non faccia alcun rumore, trova la risposta nell’utilizzo di batuffoli d’ovatta!

L’uomo dal braccio solo, latitante per gran parte del telefilm, ma personaggio-chiave per comprendere la natura di BOB, la parte malata e cattiva, è un altro “mutilato eccellente” al quale far ricorso per scendere nelle atmosfere odoranti di zolfo. 

La luce fluorescente dei neon che non funzionano mai a dovere, durante la prima visita in obitorio fatta dall’agente Cooper al corpo di Laura, è una bellissima sintesi del cinema di Lynch, pervaso in continuazione da un’instancabile avvisaglia di “salto nel buio”. Un progetto intitolato “Ronnie Rocket” avrebbe dovuto approfondire questa “malattia” per l’elettricità e i suoi funzionamenti: il regista statunitense lo avrebbe voluto realizzare già nei primi anni ottanta, e sarebbe stato un viaggio di un detective nella mente di un nano dai capelli rossi devoto al rock’n’roll e soggetto a strani fenomeni elettromagnetici… Tutti gli episodi del telefilm, poi, si concludono con una scarica elettrica sotto la scritta “Lynch/Frost Productions”.

Mark Frost appare, inoltre, come coautore della serie, dirigendo anche un episodio. In precedenza si era fatto conoscere come sceneggiatore di “Hill Street giorno e notte” e del film “I credenti del male”; il contatto con Frost è stato risolutivo per il regista del Montana perché rese Lynch, agli occhi della Abc, più accettabile.

Johnny Horne, il fratello di Audrey, ha 27 anni e si veste regolarmente da indiano: vuole solo giocare perché è un ritardato mentale (altra imperfezione o difetto psichico inutilmente curato dall’eccentrico Dr. Jacoby).

La signora del Ceppo, sempre in compagnia del suo inseparabile pezzetto di legno che ha visto e sentito cose “che noi umani non possiamo immaginare”, è una mentore old-fashioned. Perché ogni cosa ha la sua ragione d’essere, le ragioni spiegano persino l’assurdo e c’è poco tempo per capire il comportamento umano. La donna è interpretata da Catherine Coulson, già vicina di casa di Henry in “Eraserhead” ed è un personaggio che ha avuto molto successo, una figura alla quale il pubblico si è affezionato incondizionatamente.

La madre di Dana è inferma su una carrozzina a rotelle. Sembra un essere insignificante, come tanti altri, ma è parte anch’ella del piccolo circo di cui si entra a far parte per sintonia o per doti speciali di bizzarria.

Il “One-Eyed Jack’s” ha un’insegna al neon intermittente, dove si vede un solo lato di una carta: il doppio e il singolo allo stesso tempo!

La scelta di un casting così umanamente completo è merito di Johanna Ray. Rimarranno per sempre scolpiti nella nostra memoria alcuni personaggi come l’agente Cooper (Kyle MacLachlan, attore feticcio di Lynch, sin dai tempi di “Dune”) con la sua saggezza tibetana e i metodi investigativi imperturbabili. Giovane e fornito di singolari qualità percettive, unisce i suoi sforzi a quelli dello sceriffo locale Harry S. Truman (Michael Ontkean), di poche parole ma avviato a molti dei segreti della cittadinanza.

Che dire, poi, del Leland Palmer interpretato dall’eccellente Ray Wise? Dell’inquietante Frank Silva/BOB (sfido chiunque a non averlo sognato almeno una volta), del poco incisivo (ma violento) Leo Johnson, del monoespressivo James Hurley (che sembra spesso camminare e parlare come in trance, sempre con la stessa cadenza)?

Leggendarie anche la bizzarria di Nadine, la classe di Piper Laurie (la crudele direttrice della segheria Packard), la gradita e divertita partecipazione di David Lynch e di un altro David, il Duchovny della serie misteriosa “X-Files” che nascerà da lì a due anni. Nonostante la carenza recitativa di alcuni interpreti, anzi, proprio grazie alla modestia di alcuni attori, il serial si fa forte di un’atmosfera ambigua e ambivalente: permette un’identificazione immediata da parte dello spettatore e mantiene un’aura stranita, coscientemente imbambolatoria. Le deficienze, in questo caso, trasmettono un vago senso di pragmatismo.

 

COSA BOLLE IN PENTOLA?

Il cibo, per una cittadina ortodossa come Twin Peaks, non può che essere fondamentale. I piaceri della tavola sono occasioni irrinunciabili per prendersi una pausa o per organizzare incontri amorosi e di stampo simil-investigativo. E poi, si sa, i cibi influenzano il nostro modo di agire, di comportarci e di vivere

Come poter resistere alle frittelle alla crema che Lucy prepara tutte le sere? E alle gelatine speciali per l’Agente speciale Cooper? E la mitica “Torta di ciliegie” che manda in estasi tutti, in particolar modo il Nostro? E’ senza dubbio la più buona dello Stato.

Tutte le tazze di caffè nero “come il buio di una notte senza luna” bevute dall’Agente Cooper sono autentiche e così incredibilmente squisite in senso assoluto che “nessun caffè, prima, è mai stato così buono”. Gli intervalli mangerecci diventano dei pretesti per sciorinare una serie di frasi tipiche di Cooper.

A colazione non possono mancare uova, pancetta molto cotta, quasi bruciata, e poi un succo di pompelmo fatto con frutti maturi. Ma va bene anche una focaccia imburrata con sciroppo d’acero e una fetta di prosciutto appena scaldata.

La merenda prevede una fetta di torta di mirtilli, scaldata, con gelato alla vaniglia. A ciascuno la sua dieta, perché ognuno ha la propria anima da rinnovare e un corpo da tenere in salute, a partire dal cervello, e non si può certo dire che quello di Dale Cooper non sia funzionante…

Gli alimenti a volte strizzano l’occhio al sesso: ecco che le “baguette con Camembert e burro” (!) che Jerry, il fratello di Benjamin, porta con se’ di ritorno da un viaggio a Parigi, diventano un pretesto per ricordare quella “famosa” Jenny e i suoi, a quanto pare, inconfondibili odori.

 

DAL DIARIO DI “DIANE”


L’idea di un detective misticheggiante che detta al registratore (l’invisibile Diane) le sue impressioni è una grande trovata. Ci domandiamo: Diane esisterà veramente o sarà un semplice nome dato all’apparecchio? Ecco un paio di esempi attraverso i quali si mettono in evidenza l’ironia e lo (st)ridere svagato del caro Agente speciale:

“Diane, sono appena arrivato a Twin Peaks. Diavolo, non avevo mai visto tanti alberi in tutta la mia vita. Come direbbe W.C. Fields: meglio stare qui che a Philadelphia. Il metereologo ha previsto pioggia; beh, guadagnare tutti quei soldi per sbagliare il 60% delle volte è un bel lavorare!”

“Diane, ci sono ancora due cose che mi preoccupano: quali rapporti c’erano tra Marylin Monroe e i Kennedy? Chi ha premuto il grilletto contro il Presidente?”.


David Lynch si è confermato, attraverso quest’opera, come uno dei registi più rilevanti dei giorni nostri, smanioso di dire sempre qualcosa di originale e andando contro uno star-system dominato dal conformismo espressivo e ricattato dalle tendenze del mercato. La facilità con la quale Lynch accede al proprio inconscio è una forma di autonomia e lealtà artistica scioccante.

Non ci dimenticheremo mai dei territori creati dalla sua mente: dei luoghi “non luoghi”, dove dominano tendaggi color rosso di angosciante spiritismo o di lussuriosa goduria, Douglas Fir fruscianti a contraltare di cieli notturni, gufi che non sono quello che sembrano, logge nere, profumi di muschio mescolati a quelli di ciambelle calde, fragori di cascate sulle rocce, ceneri che nascondono fuochi esortanti a camminare al loro fianco, profezie di nani o giganti.

Posti dove è permesso suonare l’arpa in mezzo agli angeli e dove vanno a finire le torte quando muoiono. Dove gli uccellini cantano una bella canzone…

…e c’è sempre musica nell’aria.

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