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Allonsanfan

Regia di Paolo Taviani, Vittorio Taviani vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Allonsanfan

di spopola
8 stelle

Rimescolando ancora una volta le carte della narrazione tradizionale e passando attraverso il melodramma, i Taviani fanno una profonda riflessione sulla politica della sinistra degli anni ’70 per dirci che quando comincia a venir meno la speranza, quando tutto sembra davvero perduto, c’è comunque sempre l’utopia che può darci una mano.

Anticonsolatorio per eccellenza, il cinema dei fratelli Taviani (per lo meno quello del periodo più creativo e problematico del loro percorso artistico cha va dal ’62 ai primissimi anni ’80), poggia quasi sempre (soprattutto nelle opere più riuscite e compiute) su un epos lacerante che costringe prima di tutto lo spettatore a fare una riflessione profonda su ciò che vede rappresentato sullo schermo, poichè la partecipazione commossa agli avvenimenti (comunque sempre di forte presa),  non è mai di tipo prettamente emotivo, ma scaturisce e deriva semmai da una inesauribile, tesa e prorompente inquietudine dialettica che determina (anche nel pensiero del pubblico che osserva dalla sala)  un  rapporto tutt’altro che passivo  e stimola di conseguenza un raffronto critico e ragionato con i fatti e con le azioni non solo della storia, ma anche della contemporaneità.
In “Allonsanfàn” – e sono parole di  Paolo Taviani che a mio avviso servono a chiarire meglio il concetto che ho tentato di esporre in apertura - c’è una cosa a cui ci siamo attenuti per altro anche nei film precedenti: abbiamo ancora una volta usato la storia e il passato per parlare soprattutto del presente. Noi abbiamo sempre fatto così. Quando in una storia del passato trovavamo qualcosa di affine a certi stati d’animo che vivevamo, allora prendevamo quel periodo storico scomponendolo e ricomponendolo, facendo cioè in un certo senso  un’opera di sincretismo storico che però quasi mai rispetta esattamente la “verità storiografica” degli avvenimenti, ma la interpreta per meglio proiettarli verso la contemporaneità.(…) Quando abbiamo deciso di fare  “Allonsanfàn” sentivamo in noi e fuori di noi, la forza orrenda della restaurazione in corso, di una restaurazione violenta che arrivava dopo gli anni Sessanta — non dico il ‘68, dico gli anni Sessanta perché è più complesso e più giusto parlare dell’intero decennio — e sentivamo che l’opera di restaurazione fatta dal potere non era solo del potere ma agiva inevitabilmente anche su qualcosa che era nel profondo di noi, e che ci stava cambiando dall’interno. (…) Studiando il periodo della restaurazione, gli anni dopo la Santa Alleanza, e leggendo vari libri sull’argomento, vi trovammo storie, confessioni di personaggi, che erano vicine alla sensazione che noi provavamo: avvertimmo così la presenza di similitudini inquietanti ed evidenti, anche se come sappiamo, storicamente non c’è mai un parallelo tra storia del passato e storia presente, mai. Però, emotivamente, andava bene, c’era un nesso, ed era di conseguenza a nostro avviso possibile correre il rischio e tentare l’impresa. D’altro canto avevamo sempre davanti l’esempio del più grande uomo di spettacolo della storia dell’umanità: Shakespeare. Quando usava la storia romana certamente “quella” da lui mostrata non era la vera storia romana: ci metteva del suo, se la palleggiava a seconda degli umori del momento storico che stava vivendo. Credo allora che non bisogna avere paura nemmeno adesso di utilizzare, adattandoli alle nostre esigenze,  i temi del passato e quelli della storia dell’uomo quando si avvicinano al nostro sentire… se rispondono cioè così perfettamente a ciò che si intende esprimere.  Sartre e Goethe hanno fatto uno “Il diavolo e il buon Dio”, l’altro il “Goetz von Berlichingen”: è lo stesso personaggio il protagonista delle due opere,  ma sono due esseri completamente diversi che ci troviamo di fronte e anche la loro storia è completamente diversa. Indubbiamente però, quel personaggio aveva qualcosa di appassionante e di corrispondente per entrambi, manteneva una sua differente verità sia per  l’uno sia per l’altro autore e ciascuno dei due lo ha utilizzato “giustamente” a suo modo, al “servizio” della propria idea e dei propri bisogni.
E in effetti la loro esposizione dei fatti in Allonsanfàn, è  antieroica e favolistica allo stesso tempo, a tratti surreale e persino picaresca, contaminata dai generi (il teatro soprattutto) e dalle loro differenti modalità di rappresentazione a partire dallo straniamento epico spesso messo in campo proprio per favorire la distanza critica della visione, contiene rimandi (e riferimenti)  anche disomogenei e persino discordanti di differente matrice e provenienza che vanno dal verismo all’allegoria  metaforica, espressi con un linguaggio a volte “popolare”, altre dotto a seconda dei casi e dei momenti, ma sempre con assoluto rigore anche stilistico  e nel pieno rispetto della loro personale idea della “messa in scena”.
Ricorrendo soprattutto a Visconti (ma c’è dietro anche la lezione di Rossellini, oltre a qualche piccolo “scampolo” del cinema di Chaplin e intelligenti reminiscenze del rigore bressoniano) i Taviani rimescolano dunque ancora una volta  le carte della narrazione tradizionale passando soprattutto attraverso il melodramma (ma per rivisitarlo e “travisarlo” criticamente) per fare una nuova e più profonda  riflessione sulla politica della sinistra degli anni ’70  partendo però da un punto di vista non  strettamente “ideologico” , ma più intenso, “passionale” e coinvolgente (rispetto a quanto ho prima esposto questa  potrebbe sembrare a qualcuno una contraddizione, ma non lo è).
I fatti riecheggiano “dichiaratamente” le vicende storiche del primo Risorgimento (i riferimenti alle società segrete premazziniane, alla carboneria e alle spedizioni dei fratelli Bandiera e di Carlo Pisacane sono evidenti), ma è attraverso la loro rappresentazione mediata che i fratelli Taviani fanno inevitabilmente una personale e autonoma scelta  di campo che non è mai  imparziale (dubitiamo sempre della buona fede di chi pretende di rimanere “neutrale” ed equidistante dalle cose) e ci veicolano così alla fine l’idea importante e fondamentale  che quando comincia a venire meno la speranza, quando tutto sembra davvero perduto, si può tentare  di privilegiare per lo meno l’utopia (che noi non intendiamo come farneticazione e sogno avventuristico, ma come ricerca di strategia, spinta morale, disegno generale rispetto al quale scegliere i modi della propria azione,  qualcosa insomma che implica fantasia e coraggio, e che può modificare profondamente l’individuo ha scritto Vittorio Taviani), necessaria.per tenere vivo – pur nella sconfitta -  il “sogno”  di un cambiamento che potrebbe avverarsi prima o poi, di una svolta irreversibile verso un avvenire migliore e di maggiore eguaglianza sociale.
Ma lo sguardo è comunque consapevole dello stato effettivo delle cose, e lo riavverte così bene, che alla fine allora nell’analisi dei fatti e delle contraddizioni, c’è davvero molto poco di cui potersi rallegrare, soprattutto se la rilettura viene fatta aggiornata al presente, ripercorrendo cioè il tragitto involutivo del pensiero che ci ha portato al punto in cui siamo arrivati adesso e che subiamo passivamente senza molto fare come invece credo sarebbe necessario che accadesse.
 
In San Michele aveva un gallo (probabilmente il  risultato più compiuto e complesso  raggiunto dai Taviani) titolo  che viene immediatamente prima di Allonsanfàn, la parabola dell’anarchico internazionalista Giulio Manieri era stata praticamente sviluppata in tre movimenti: l’utopia della propaganda del fatto (il primo); la meditazione sulla veridicità di tale utopia (il secondo); il confronto (o meglio la contrapposizione razionale) fra l’utopia immaginata e la realtà effettiva, che determinerà l’inevitabile sconfortata “sconfitta” (il suicidio) dell’eroe, e presentava dunque in una certa misura dei movimenti di contrapposizione dinamica delle cose molto interessante dal punto di vista dell’analisi.
Il Fulvio Imbriani protagonista invece di Allonsanfàn, patrizio di nascita, ex giacobino ed ex ufficiale napoleonico liberato dal carcere ove era finito per la sua appartenenza alla setta dei Fratelli Sublimi,i ormai stanco di combattere sembra ormai essere in caduta libera: cerca di reinserirsi nel confortante tepore della famiglia abbandonata per aderire alle grandi lotte etiche di un ideale rivoluzionario che non si è realizzato, e lì, tra  ritrovati agi borghesi e ricordi domestici e affettivi che riemergono dal passato, decide di abbandonare “vigliaccamente” la cospirazione. Lui sa, è in qualche modo  consapevole, che il grande incendio che avrebbe dovuto divampare  per tentare di dare un nuovo volto a quell’Italia divisa e rassegnata, è stato invece spento (o meglio, soffocato) prima ancora che potesse davvero svilupparsi in tutto il suo furore, ed è forse prima di tutto per questo, al di là dei tornaconti personali (anche economici) che allora tradisce (se stesso, il suo pensiero, la causa ed il suo onore). Corriamo dietro a faville che ormai sono solo cenere  risponderà a Lionello, uno dei Fratelli Sublimi che è lì a ricordargli, quasi rimproverandolo, come sia impossibile ribellarsi sprofondando all’indietro come invece sembra stia facendo lui.
Perché i Fratelli Sublimi, che rappresentano il suo passato incancellabile e incarnano la sua ideologia ormai rimossa, non gli danno tregua (non possono farlo), e in un confronto continuo fra l’essere e “il diventare”,  per risvegliare in lui gli antichi furori, lo assediano, lo circondano lo sobillano, fino a spingerlo nuovamente (e inesorabilmente) persino contro la sua volontà,  di nuovo dentro la lotta, sul “campo di  battaglia”, ma anche verso un ulteriore e più terribile tradimento, e per conseguenza, verso una fine che si presenta poi come una tragica beffa del destino.
Nelle epoche di reazione (e quella del 1816 e seguenti in cui è ambientata la storia, segnata dall’ondata implacabile della restaurazione a seguito del Congresso di Vienna, con Napoleone a S. Elena e gli Austriaci a Milano, che altro è se non questo?), ci si mimetizza ci si camuffa, ci si trucca, ci si trasforma (qui il gioco è portato in Fulvio alle estreme conseguenze) perché forse è l’unico modo per cercare di salvarsi e sopravvivere (persino alle delusioni). Anche Fulvio lo fa, come si è visto, tornando a casa liberato dalla prigionia, travestito da frate,  per diventare a suo modo “infame delatore”, e i Fratelli – inconsapevoli del suo tradimento, torneranno a lui speranzosi vestendo i candidi panni dei compagni della buona morte, vestiti da gelatai, o nascosti dietro gessose e colorate maschere di carnevale che li fanno sembrare quello che non sono e mai saranno, e solo alla fine, di “travestimento” in travestimento, dopo lo sbarco, indosseranno la camicia rossa, l’ultima “mimetizzazione”, quella  imposta dalla “riconoscibilità”, che definisce l’affiliazione e l’appartenenza al gruppo armato arrivato là per sollevare le masse  (la stessa  camicia  rossa che Fulvio si toglierà per non essere “confuso” dopo l’ultimo vergognoso tradimento, ma che sarà poi di nuovo quella – per una strana beffa del destino – che segnerà una  inevitabile “condanna a morte”, mentre i fantasmi alacri della sua cattiva coscienza, quegli antichi compagni di viaggio che al contrario di lui non si erano smarriti, non avevano perso la strada, continueranno ad andare dritti per il sentiero tracciato nonostante i lutti e le sconfitte,  anche se non sanno ormai dove questo potrà  approdare e se davvero porterà da qualche parte al di la di una morte certa (Desidererei  essere già arrivato al maggio dell’anno prossimo per sapere se tutto questo ha davvero avuto un senso, se è servito a qualche cosa,  dirà Tito, un altro dei Fratelli,  ma per aggiungere  subito dopo, rovesciando in pratica ogni prospettiva eroica nell’ineluttabilità di una predestinazione, ma d’altra parte che cosa potrei fare di diverso anche se “sapessi”  visto che non so fare nient’altro che ciò che sto facendo?
E a Fulvio ricompariranno davanti alla fine, in un ultimo, estremo rigurgito di “innocenza perduta” che ritorna prepotente a galla nell’agonia, le visioni anche simboliche dei suoi deragliamenti, le ossessioni e le “fatali” metafore: il rospo del racconto fatto al figlioletto, l’amico lasciato morire che rivede sulla spiaggia,  Allonsanfan ferito che nel delirio gli annuncia che la rivolta  ha trionfato e che i Fratelli marciano uniti insieme con i contadini, così da indurlo a rimettersi quella “camicia rossa” poco prima gettata alle ortiche.
E’ dunque ancora la delirante utopia di Allonsanfan, emblematico personaggio che non a caso e  significativamente da il titolo al film (oltre ad essere la contrazione del verso iniziale della Marsigliese), a ritorcersi contro Fulvio e a condannarlo, in una sorta di contrappasso laico osservato attraverso gli innocenti  occhi del bambino meridionale testimone della strage (e sono tanti i piccoli giudici nei film dei Taviani, e in special modo in questo: la bambina che legge la lettera del suicida, il nipotino di Fulvio, il piccolo Massimiliano che inorridito grida al padre Pussa via! E forse rimarrà proprio nel bambino oltre che nel delirio di Allonsanfan, l’indelebile il ricordo di  quel sangue. Un giorno allora (chi mai può dirlo?) potrebbe essere proprio quell’innocente testimone superstite a cercare di capire le ragioni  che hanno spinto dei poveri contadini ad uccidere un gruppetto di uomini che erano venuto per scuoterli dal giogo della miseria e per riscattarli da una infamia perpetrata da secoli nei loro confronti.
In tal senso dunque, proprio come San Michele aveva un gallo, anche Allonsanfàn,  lungi dall’essere un’opera disperata o ambigua (come potrebbero persino apparire entrambi a una prima superficiale lettura), intende essere a suo modo una tragedia in fondo ottimistica, montata e orchestrata secondo i modi e le accensioni di un melodramma didattico… una tragedia ottimistica nonostante che l’ideale “terza barca” che non compariva nel finale di San Michele e di cui anche gli autori avvertivano una prepotente necessità, continua a non arrivare nemmeno in Allonsanfàn (ma nel faticoso evolversi – o meglio involgersi  - del processo rivoluzionario che ormai abbiamo davanti agli occhi, era davvero ipotizzabile in quel riflusso montante che già allora  - il film è del 1974 –  era molto di più di una sinistra minaccia all’orizzonte, immaginare l’arrivo di quell’ultima barca con il suo carico risolutivo e definitivo di strumenti “risanatori”? No, credo davvero che non fosse possibile e bene hanno fatto i Taviani a non mostrarcela,  perché se l’avessero dovuta immaginare davvero, non potevano che mostrarcela nel momento del suo “naufragio”. Non ce la presentano allora materialmente ma ce ne forniscono una  interpretazione metaforica (ed è in questa direzione che i due registi portano avanti il loro discorso un tantino più in positivo rispetto alle loro precedenti opere): quando ogni soprassalto delle forze progressiste sembra sommerso dalla paura, dalla delusione, dal cedimento dei più e da una feroce repressione che riprende vigore, in un mondo ormai allo sbando in cui sembra  che tutti dormano e solo noi siamo rimasti svegli (è una frase che pronuncia Tito, il capo dei  superstiti rimasti della setta segreta dei Fratelli Sublimi), è ancora  quella della tenacia disperata, di una folle, cieca quasi derisoria utopia: (e perché mai dovrebbe andare male?) a sorreggere il pensiero e la speranza. Ed è dunque su quella “barca” ideale che salgono Tito e i sui residuali compagni di fede ma non per dirigersi verso le Americhe (come aveva sognato Fulvio al momento del suo primo tradimento: si veda al riguardo il quadro con il grande veliero bianco che troneggia in casa della sorella e che lui si ritrova di fronte al risveglio dopo la “malattia”, altra magnifica metafora di quel passato che ha rinnegato, ma che resterà incombente come una “maledizione” sopra la sua testa), ma – come si è visto -  per andare invece verso una povera, pietrosa  terra del Sud che ricorda i paesaggi quasi lunari e protostorici di Sotto il segno dello Scorpione.
E allora la sorte infausta di Fulvio con tutto ciò che si porta dietro anche di negativo, rappresenta  l’inevitabile epilogo di un mondo confuso che ha ormai fatto il suo tempo, e quella barca preconizza l’avvento a breve di un’altra  più significativa spedizione che otterrà ben altro successo, quella dei Mille di Garibaldi che indosseranno analoghe camice rosse, oltre che la nascita e l’affermazione del movimento socialista di fine Ottocento.
 
Parlando di “melodramma didattico”, ho indirettamente accennato prima proprio all’importanza preponderante nella messa in scena, della colonna sonora,  della straordinaria  potenza della bellissima partitura orchestrale di Ennio Morricone (una delle sue migliori anche sotto il profilo dell’inventiva) che si abbevera  anch’essa alle fonti più disparate, dai riflessi cangianti che spaziano fra musica colta e rappresentazione teatrale a quelli attinti direttamente dalla musica popolare di riferimento. Uno score così strettamente connesso con la storia e i suoi significati, da diventarne l’indispensabile parte integrante che la sublima.
Questo risulta gia chiaro da ciò che - musicalmente parlando - si ascolta mentre scorrono i titoli di testa, prima cioè dell’apertura  di quel “mascherino” che sembra quasi significare il secco dischiudersi di un sipario. Sono le prove dell’orchestra, l’accordo degli strumenti prima che inizi davvero lo spettacolo, scrisse al riguardo a suo tempo Pietro Pintus  con una felice intuizione espositiva.
Su tale linea di spettacolo “significante”, scandito nell’arco e sui ritmi di un mirabile spartito pieno di suggestioni e di rimandi, si innerva e si impenna tutto il film, che nel percorso “figurativo” dei Taviani, rappresenta forse il culmine della ricerca di un linguaggio espressivo innovatore e spesso persino “rivoluzionario” per il suo taglio fra il dotto e il popolare (lo ho già evidenziato all’inizio),  che preparerà la strada per la successiva “favola” epicizzata dei ricordi rivissuti attraverso l’innocenza di un altro sguardo infantile (La notte di san Lorenzo che è a mio avviso il titolo che – purtroppo - conclude davvero il ciclo creativo dei due fratelli,  poiché niente di ciò che verrà dopo,  e forse con la sola eccezione di Kaos, sarà  sullo stesso piano e alla stessa altezza).
Basterebbero tre esempi per definirne davvero il ruolo e l’importanza del suono, la perfetta sintonia fra “musica” e immagini che sono il pregio maggiore e la bellezza dialettica  di questa pellicola. Cito per prima,  la famosa sequenza dell’”uva fogarina”, diapason sonoro del ritorno a casa con la riscoperta dei dolci veleni della famiglia,  le ombre sul soffitto, il pane, i vecchi strumenti musicali, gli ozi nel meriggio assolato, dell’ordine insomma ritrovato dopo “tanto disordine anche mentale”: è un conosciuto, allegro e trascinante motivo radicato nella tradizione al quale tutti si associano, compresa la vecchia domestica, quello che ascoltiamo e che sembra davvero rappresentare il ritornello delle quiete virtù ancestrali (è ancora Pintus che cito)  ma che diventa anche nello stesso tempo  il tema musicale che da la giusta “carica” agli eventi e al cui ritmo si sviluppa e prende corpo la repessione, la caccia che la gendarmeria austriaca comincerà a dare senza tregua ai Fratelli Sublimi.
Vorrei poi indicare, come seconda istanza, la sequenza della cena consumata da Fulvio in compagnia del piccolino Massimiliano, realizzata come se si fossimo davvero di fronte “a una azione teatrale”. E’ in quella scena (e l’intuizione dei Taviani è straordinaria) che il rivoluzionario rientrato nei ranghi, si sostituisce al violinista che suona, mentre l’orchestra ritualmente gli si associa e lo asseconda accompagnandolo,  riassorbendo così attraverso la sfera dell’arte e la  trasposizione traslata,  il transfuga ritornato all’ovile. Per concludere però voglio evidenziare proprio il momento più straordinario  e sublime (almeno dal mio punto di vista) di tutta l’opera,, quello del “saltarello”, o per essere più chiari, della danza carnevalesca improvvisata dai Fratelli (Ma voi cosa state facendo?) che è da un lato la spia che indica proprio la matrice popolare del movimento rivoluzionario, ma dall’altro è anche l’esaltazione di una certa preponderante componente teatrale, e di tutta la corrente culturale borghese e narcisistica che la sottende (forse adesso si potrebbe definire “Radical-chic?:  bah!!! proprio non saprei dire, non sono la Gelmini: quel che è certo, è che la resa è di straordinaria efficacia): il ballo si espande e si trasforma, diventa una marcia aggressiva e beffarda, e nel delirio finale di Allonsanfan, finisce per riempire interamente lo scherno diventando quasi un’ossessio0ne non soltanto sonora,con il suo vendicativo furore contadino che trascina quasi all’applauso la sala.
Chi meglio di Mastroianni poteva dare forma e corpo alle ambigue apparenze mutanti di Fulvio Imbriani? Nessuno: e l’attore ci da qui ancora una volta una prova sorprendentemente duttile e sfaccettata - persino un po’ sorniona in alcuni tratti - che  conferma in pieno il  valore e le qualità introspettive della sua finissima arte recitativa. Subito dopo però vorrei citare l’importante apporto di tutto il versante femminile: l’opulenta bellezza di Lea Massari  che disegna da par suo il personaggio “fondamentale” di Charlotte; e ancora la dolce rassicurante presenza di Mimsy Farmer (Francesca) e la grintosa sorella di Laura Betti, affiancate però dalle altrettanto appropriate Alderice Casale e  Luisa De Santis. Variamente assortito(e perfettamente adeguato)  anche quello maschile a partire dall’ottimo  Stanko Molnar (Allonsanfan), per arrivare al sanguigno Lionello di Claudio Cassinelli  troppo presto sparito dalla scena per un mortale incidente, passando però per Bruno Cirino, presenza “insostituibile” di  una stagione cinematografica ormai lontana e qui impegnato a dare volto e anima a Tito, il capo della setta,  e senza dimenticare Benjamin Lev, Biagio Pellagra e Renato de Carmine.

Sulla trama

Il film è ambientato negli anni intorno al 1816, quelli della restaurazione dopo il Congresso di Vienna.
Ne è protagonista un aristocratico lombardo, Fulvio Imbriani (ex giacobino ed ex ufficiale napoleonico) che viene rilasciato dopo una lunga detenzione nelle carceri austriache per essere stato un affiliato della setta dei Fratelli Sublimi. Riparato nella villa di famiglia, viene raggiunto da Charlotte, la donna che lo ha reso padre di Massimiliano e che si adopera per convincerlo assieme agli ex di compagni di una lotta che lui ha deciso di lasciare, a preparare una spedizione rivoluzionaria per il Meridione.
Lo scetticismo di Fulvio lascia libera la sorella Esther di denunciare i congiurati (ed è così che prende corpo il suo primo tradimento).
Nel tentativo di arresto, Charlotte viene uccisa, ma i congiurati riescono a fuggire.
Un’altra donna, Francesca, costringe Fulvio a riprendere i rapporti con i congiurati e i funerali di Charlotte rappresentano l’occasione per definire gli ultimi preparativi prima di partire per il Sud.
Guidati da Vanni Peste, Fulvio e i restanti Fratelli Sublimi, raggiungono così le terre del Meridione dove di nuovo il patrizio milanese tradisce se stesso e la causa, provocando l’eccidio dei compagni che vengono trucidati dai soldati e dai contadini. Ma nemmeno per Fulvio le cose si concluderanno in positivo,  poiché rimane a sua volta vittima di un equivoco.
Dall’eccidio sopravvive fisicamente solo il giovane idealista, Allonsanfan, solitario emblema e segno di fiducia per il futuro, di una possibile ripresa di quella rivoluzione fallita e finita nel sangue.

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